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Garibaldi, Verga, Virgilio, Papa Giovanni XXIII, Aldo Moro... Studiati a scuola o semplicemente sentiti nominare, tutti abbiamo in mente un'idea, spesso errata e stereotipata, di questi illustri personaggi che hanno fatto la storia d'Italia e non solo.
Quasi nessuno invece conosce qualcosa di altri personaggi, nostri concittadini del passato, a cui il nostro paese ha dedicato, come gli altri nominati sopra, vie e strade. Nomi che ripetiamo ogni giorno ma che per noi non hanno nè un volto nè una storia. L'intento di questa rubrica è quello di tirar fuori dall'oblio questi nostri meritevoli avi.
L'articolo di questa settimana è dedicato a un grande dimenticato del cinema italiano: Elio Ruffo. Figlio di Gaetano Ruffo, stimato avvocato che difese tra gli altri il brigante Musolino e convinto antifascista, nacque a Reggio Calabria la vigilia di Natale del 1920.
In gioventù seguì le orme paterne, dapprima laureandosi in Giurisprudenza, e in seguito arruolandosi fra le file partigiane.
Terminata la guerra si trasferì stabilmente a Roma, dove lavorò come giornalista per le testate "L'Umanità" e "Fotogrammi", per poi passare al cinema, iniziando la carriera dietro la macchina da presa come aiuto regista di Giorgio Simonelli e Mario Sequi.
La piena adesione alla corrente neorealista che si sviluppò nel dopoguerra in Italia accomuna tutta la sua produzione, come il forte legame alla sua martoriata terra, la Calabria. E infatti debuttò nel 1949 con il documentario "S.O.S Africo", a cui seguirono nel 1950 "Gente del Sud" e "Gerace" e l'anno successivo "Monte di Pietà".
Nel 1954 girò, fra San Luca e Bovalino, il suo primo lungometraggio, "Tempo d'amarsi", che gli valse il premio speciale della giuria al Festival di Locarno e l'appellativo di "Visconti calabrese". Il film mostra una terra ricca di tradizioni ma afflitta dalla povertà e dalla grande mancanza di lavoro, tema purtroppo ancora oggi attuale. Alla pellicola parteciparono anche comparse e attori del luogo, tra cui il suo stimato amico Mario La Cava. Nonostante l'importante riconoscimento, la Calabria ancora non faceva notizia, e la pellicola fu un fiasco ai botteghini, tanto che dovette lui stesso finanziare la produzione.
Tornò quindi al documentario, girando nel 1958 per la Rai in Sardegna "Il bosco dei cavalli selvaggi", e nel 1962 "Lidi calabresi".
E' del 1966 il suo capolavoro, "Una rete piena di sabbia", aperta denuncia al sistema politico-mafioso calabrese e all'indifferenza da parte del governo, del cinema e della televisione verso questa regione e anche verso il suo talento. E' l'unica pellicola in cui è impressa una vera riunione del tribunale di mafia. Anche questo film gli valse importanti riconoscimenti: il Premio Giovane Capitolino, il Premio dell’Unione Cronisti Italiani per la migliore regia e una segnalazione speciale della Critica al Festival di Venezia.
Nel 1969 Ruffo prese spunto di un summit mafioso avvenuto a Montalto per girare il lungometraggio "Borboni '70", ma non potè terminare le riprese, perchè morì a soli 52 anni il 16 giugno 1972
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