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La lupa

Andava per i campi
mentre il cielo mostrava
lampi lontani.
Non si preoccupava dei crampi
alla mano e lavorava come schiava
di un tempo africano.
Zappava, potava, governava le bestie,
quale fosse il tempo.
Errando andava su sassi infuocati,
scalza, fra stoppie riarse di campi, ampi
  e l’afa si perdeva nel cielo
offuscando ogni orizzonte,
solo lontani i bagliori.
Aveva occhi dannati,
neri come il carbone
e di girar la testa sapeva
a chi la guardava.
Spiritata sull’uscio
attendeva l’amore quello
che passa leggero
e si ferma per qualche ora.
Solo quel dì, di primavera,
mentre ogni cosa sbocciava
il suo amore prese a volare
nell’aria, e profumava
di fiore di zagara.
Misero uomo che turbato,
tentato, avvolto
da quello sguardo impavido,
tinto di rosso, infoiato
che abbandona una, dieci
e mille volte, ma che rivede ogni volta.
Condannato vive
a quella pena
abbruttita,
andare e venire
da quell’umida erba
e le mani attraversare
gli stessi capelli arruffati,
ogni volta, la stessa volta,
anche il tramonto si era perso
oramai, sazio dell’ora che miete
spasmi di effusione d’amore.