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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 29 Giugno 2012
- Visite: 1656
Ore 3.25 del mattino. Caldo afoso e appiccicaticcio, stelle in cielo dalla finestra ne ho contate trentacinque. La Costellazione del Carro la vidi per la prima volta dal balcone di casa mia a otto anni, fui fermamente convinta di averla scoperta io, sin quando a quattordici non scoprì che qualcuno mi aveva già preceduto. Preceduto di parecchio.
C'è sempre qulcuno capace di precedere le mie scoperte o le mie realizzazioni, le mie mosse non sono altro che pantomime antecedute e anche scadenti, tra l'altro. Forse io e il tempo non andiamo molto d'accordo, anche perché per me sembra avere una spiccata simpatia l'anacronismo. Inadempiente sempre per qualche secondo, o per qualche imprevisto sorto all'ultimo istante. Fatto sta che il sonno mi aborra anche. Morfeo si diletta e si trastulla da dietro le persiane e non s'approssima verso le mie palpebre. Inoltre sto irrimediabilmente rendendomi conto che ci sono un sacco di persone e cose a cui non vado molto a genio. Menomale che la Scrittura, almeno Lei, non mi volta le spalle. Ultimamente gli attacchi di panico sono aumentati. Generalmente dipendono da delle controversie interiori, per quanto mi concerne invece, prevalentemente da due cose: mancanza di adrenalina, sensazioni stagnanti. La mancanza di adrenalina che mi irrori le vene, rimpiazzandosi meravigliosamente ai globuli rossi, riesco provvissoriamente a sopportarla, ma non le sensazioni stagnanti, i grumi di ricordo, i ricordi che mi ricordano i ricordi. Vi capita mai di sentirvi trascinare dalle rimembranze per il colletto della maglietta? Che ne so... siete comodamente seduti a su una panchina, ed ecco che un odore di pane caldo vi ricatapulta agli otto anni, o il fischio del treno di notte! Io amo il fischio del treno di notte. Ho abitato per vent'anni in campagna. La distanza della ferrovia sarebbe potuta essere all'incirca tre chilometri, ma di notte, esattamente intorno alla mezzanotte, in estate, quando sui balconi del sud in campagna, la limotrofia è circondata e pregna più di odori che di rumori, il fischio del treno puntualmente fendeva il buio tenebroso dell'estate e nonostante l'eccedenza d'asfalto e ciottoli si udiva egualmente quello sbuffare melodico. Rammemoro esattamente che quando lo udivo, avvertivo una sensazione di disadattamento scantonarmi nelle budella, a basso ventre, lo stomaco si contorceva, come se all'interno lingue di serpi mi vellicassero l'ombellico, ed io con la mente vagavo inseguendo quel rumore, errando e svaporando, fino a trasfondermi all'interno di quel lacerio remoto che si dissipava gradatamente dietro le curve prima della ferrovia. Questa notte, dopo ormai quasi quattordici anni da quelle altre notti, conto le stelle, e mentre gli odori estivi mi rimandono ai tempi in cui le ansie appartenevano alle rughe di mia madre, non di certo alla scavezzacollo sfrontata che ero allora, il treno ripassa puntalmente e io socchiudo gli occhi. Poi li strizzo e spengo la luce, divarico le orecchie, affondo con la testa nel cuscino e immagino che quel rumore mi porti via, da qualche parte. Una meta senza nome né dove, ubicata sulle nubi, forse. Desumo non si possa vivere tutta l'esistenza sparpagliati tra due estremi. Tra l'esoterismo sovrastrutturale e austero, l'eleganza borghese, la magia della luce dei lampioni e dei vocii stanchi dei nottamboli approssimanti verso casa, i sudori e le gestualità sempiterne di baristi esperti, e l'occhieggiante Gran Madre Torinese, contrapposta alle spighe riarse del Sud, a quei treni "a scatolette di tonno della Ionica", che assomigliano a treni fantasma tutt'al più, che ad ascoltarli di notte un lembo della tua anima se ne parte con loro viaggiando per stazioni sconosciute e dimentiche, logore di vita appena abbozzata. Tra quel mare ammiccante e quel cielo pallido, che all'annottare tinge di rosa l'orlo di congiunzione dell'orizzonte, e l'olezzo, ah... il buon olezzo delle fritture della nonna frammisto alla terra bagnata e brulicante del pozzo in lontananza ed ai fiori che sbocciano al crepuscolo emananti fragranze bambine, non è forse un connubio di pace e frenesia? Ed io danzo, or a ritroso ora in avanti tra queste controversie, allignando parzialmente in entrambe ed in nessuna. Non so bene se ci sia un luogo che possa concederci la pace, sono soltanto consapevole che se non ci si libera delle gabbie interiori, se non si scava a polpastrelli nudi dentro la propria anima, snidando e scovando i disagi non esiste dimora né posto alcuno che ci conceda requie. La realtà è che la vera nostra casa è edificata di pelle e tessuto osseo, è uno sputo di ricordi, una reminiscenza vacua di un'amore, qualche istinto non sfogato e lasciato lì a marcire, nella speranza che il tempo lo smaltisca, ma il tempo non smaltisce mai i "rifiuti speciali", tocca a noi fare i conti con le omissioni dilazionate. E' sempre meglio affrontare a denti serrati il dolore e toglierselo di mezzo, abbrancandolo per le spalle, coccolandoselo, aiutandolo a mutare forrma. Io il mio dolore lo rinnovo. Ci sono giorni, o meglio ore, in cui i conati di vomito spingono all'insù per fuoriuscire imperiosamente ed esondare. Non è un problema di stomaco realmente, ma la necessità celata e latente di voler sbarazzarsi di una spina nel fianco, del veleno implicitamente fagocitato, il maledetto effetto collaterale di un cambiamento che ci ha spezzato ossa e fiato in gola. A volte la testa pesa così tanto, che l'istinto mi condurrebbe essenzialmente a cadere in avanti bocconi, ed a lasciarmi andare stremata e sfinita, mentre la voglia di riscatto se ne sta insieme all'adrenalina sotto le suole ad attendere un rinvenimento poco probabile. Sono istanti incomprensibili, come se ogni piccolo pezzettino della tua persona fosse stuprato, sputato, depredato della sua linfa e denigrato, lì gettato: nell'inutilizzabile inerzia che scatutisce da un apperente nulla. Un nulla traboccante in realtà. Sotto quel nichilismo stantio, le sensazioni, le controversie, i dolori ribollono e qualche volta il cuore e la mente si coalizzano per distruggerli e debellare in periglioso, in una danza che ha un crescendo irregolare e sragionante, e che inspiegabilmente tende a colpire ed a sgominare più che il problema... te. La testa è come compressa in una morsa e scrivere, parzialmente lenisce la sofferenza, tramutando il dolore in amore, in amore per gli altri, in comunicazione, in perdono. Il perdono sì. Non è semplice lasciarsi alle spalle le parole. I dolori fisici, anche se tanfa di qualunquismo quest'asserzione, be', se sono in dose non eccessiva divengono molto più innocui delle lesioni emotive che vengono inflitte alla nostra anima, alla nostra intimità. Ho sempre considerato la mancanza di rispetto un fatto puramente oggettivo, ma se inevitabilmente riesce a ledere i tuoi punti più delicati è lapalissiano che le meningi ti implodano ogni notte. Eppure la scrittura realizza anche questo. S'arroga a ragion veduta il diritto di trasformare un disagio esistenziale in amore, in comunicazione, in perdono, in atavico istinto di assemblamento, infine in ispirazione. L'ispirazione nasce poche volte dalla serenità, eccettuando l'immaginazione ferace di un qualche disumano e divino Essere, è l'attrito doloroso del contrasto che realizza ed elargisce il materiale primario affinché si possa articolare l'ispirazione. Occorre essere delle spugne emozionali, assorbire e interiorizzare, non aver paura di soffrire, non intimorirsi se le ponderazioni del cervello si dimenano inducendoci a rasentare la follia, per scrivere, ma anche per vivere e non per limitarsi, occorre passare in rassegna la vasta gamma di sensazioni che il mondo inesauribilmente e perennemente dispensa. Non intimidirsi mai, ma procedere cautamente a tastoni, perlustrano ogni anfratto ed antro umorale, conoscere l'introspezione equivale ad accere ad un linguaggio plurimo e composito, eterogeneo ed universale, mai univoco, mai relegante ed escludente. L'animo umano permea ove la Parola, nonostante assurga a spada ben spesso, talvolta non penetra. Non aver paura del dolore equivale a forgiarsi una via di fuga molto poco fallace, senza paura si respira e si sopravvive meglio. L'insopportabilità del dolore è violenza se la riconosciamo come tale, accettare le sensazioni, osservarle e dosarle, scrutarle imparando a conoscerle, potrà viceversa permetterci di veicolarle. Ripudiare il dolore tentando di rincantucciarsi nella gioia è un bene, ma semmai la delusione dovesse ammantarci non disperiamo, sfidiamola e usciamone sghignazzandole in faccia, in quanto consci che non può linciarci né ucciderci, e che può lambirci se glielo permettiamo, recidendo i fili di dipendenza con la suddetta, non può che limitarsi ad atteggiare il viso a smorfia dietro la coltre di protezione definita consapevolezza. Ore 4.17 del mattino, l'aria è rinfrescata, un altro treno passa fischiando e ricordandomi che il Romanticismo se ne va ancora a spasso per il mondo, tra treni e baci profani. Aleardi non fu l'orizzonte della fine, neppure Prati, né vi fu uno scadere nel vuoto sentimentalismo come rimpiazzo della Corrente, "Rinnovo" è la parola corretta e che contiene il senso. Rinnovo così come sensazioni, mai una fine d'emozione, solo alternanze cicliche. Le emozioni son sempre quelle, soltanto che ogniqualvolta ci pervadono ci appaiono sempre inusitate e pregiate, novelle. Le sensazioni assomigliano all'alfabeto: 21 lettere, migliaia di parole. 21 Brividi, migliaia di emozioni differenti a seconda di contesti, soggetti e immaginazione. Una miriade di combinazioni semantico-emozionali. E' una notte strana questa, l'Esistenzialismo è esattamente dietro quella porta, lì a urlarmi, come Sartre asserì che non ha a che fare col Quietismo, ma con la cognizione di causa: L'Esistenzialismo è un Umanismo. Ed anch'io che a mia volta con la troppa consapevolezza ed il troppo senso critico ottundo le mie cervella, e tutto suppura in parole misconosco il Quietismo, curo la Retorica che tento di ripulire con scarsi risultati da un'aulicità D'Annunziana, da assonanze onomatopeico-simboliche cui il mio cervello non sporadicamente smarrisce persino la chiave interpretativa. E dunque tutto s'accalca nella penna, che assorbe i dolori, le collisioni sentimentali che hanno generato crepe, le aspettative morte sul nascere, i rumori molesti che lacerano la serenità implicitamente, le imbottitutire subliminali cui siamo esposti, l'ansia di sogni che non avverranno, il rimorso che un condizionale avrebbe ingentilito un addio non troncando di netto rapporti or irrecuperabili, e la triste consapevolezza che nelle persone è meglio investire un quantitativo sentimentale molto più esiguo di quello che si infonderebbe in Libri, Animali, Piante e Cultura, giusto per agognare ad un' integrità psichica decente. Qualche volta penso si rimanga appesi tra quello che la nostra natura ci sussurra e quello che gli altri si aspettano dalle nostre gesta. Ma arguisco che la realtà sia ancorata al centro di questi due estremi, come un ago di bilancia pende a seconda delle sferzate d'influenza cui siamo soggetti. Ideologicamente siamo incisi dall'emotività da cui proviene l'idea, da chi la espone, e dal livello di foga ad adrenalinica di chi riesce a inocularci la sua visione delle cose. Siamo in gran parte il frutto delle nostre debolezze o imperiosità emotive, nate da interazioni umane appartenenti ad altre pelli.
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