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Mi fermai a osservare quell'albero, inopinatamente spensi il motore della macchina e scesi. Si stagliava sul lato destro della strada, impettito e solenne. Aveva un tronco alquanto nodoso, dalla mia prospettiva dal basso verso l'alto, quei rami rattrappiti e spogli sembravano contenere l'azzurro del cielo. Forse il compito degli alberi, è evitare che il terreno si sfaldi per via della morsa delle radici, ma anche che il cielo cada, perché i rami ne sostengono il peso greve e ceruleo, quasi acquoso e guizzate. Un po' come lo scrittore, che il penso del mondo se lo sente gravare sulle spalle.

E il suo groppone si inclina e si crepa come un bagnasciuga su cui si frangono troppe onde. Forse tu scrittore lo ignori, ma io ti conosco, io so indovinare le tue tristezze che spesso celi dietro quegli occhi di Fanciullino Pascoliano e che a tutti appaiono come il "consueto sorriso". Il consueto sorriso del "va tutto bene", quella maschera che indossi, per evitare di spiegare a chi ti è vicino il cuore che ti sanguina. Perché sovente quello che seguita accanto a te costeggiandoti, si limita a viverti passivamente e siccome ti fiancheggia il tuo volto non lo osserva, si limita ai tuoi profili, e l'espressione non gli giunge mai per intero, non conosce quel muso arricciato che equivale all'amarezza, né quel sopracciglio che ti tasti per sincerarti che esisti, non conosce, non ti conosce. Ma io sì. Io non ti costeggio scrittore, io ti punto sempre lo sguardo accigliato in faccia. Te l'ho decodificata quell'irrequietezza che sostanzialmente è anche mia. Io godo del privilegio di esserti distante, e di poterti scrutare da ogni prospettiva, non mi precludo i profili tuoi, né i faccia a faccia. Qualche volta sei triste, se il nichilismo t'inghiotte, perché sono poco propensi a capirti quelli che sopravvivono in prossimità della tua vita, non comprendono perché odi abbigliarti di quella routine infingarda e standardizzata che ti annichilisce, che ti uniforma a un entourage becero, e tu scrittore, non sei così, sei l'oltraggio impensabile al loro ripetersi. I tuoi occhi si sono fermati a dodici anni, gli iridi ti si sono cristallizzati in quel trascorso, quell'età in cui lo stupore non esonda e dilaga irruento come nell'infanzia, né è troppo arido dalla vecchiaia degli anni, che lo arde e lo rosola. Il tuo stupore è perfettamente calibrato, consta di un equilibrio fittizio, che solo tu ti puoi permettere, nonostante il tempo tratteggi e imprima il contorno dei tuoi occhi, il bulbo è esente dalla corrosione, una pupilla diafana che cristallizza estemporaneamente ogni impercettibilità. Sai scrittore, oggi mi sono fermata ad osservare quest'albero e mi sei baluginato in mente. Poi un clacson inquisitore, dovuto al mio parcheggio approssimativo mi ha violentemente ricatapultato nella realtà, nel grigore più sordo, e le mie scintille in cielo son mutate in agglomerati di case, disseminate come buchi su un sentiero tarlato e troppo battuto. Ho rammentato che avevo la lezione su Montale, e sono montata nuovamente nella mia vettura. Oggi è stato doloroso ascoltare la lezione su Montale. Montale ha un'idea amorfa dell'amore, anche se lo chiamano il Poeta Sentimentale, ha una visione tutta personalissima del sentimento. Non è un amore cortese, né un amore convezionale, ciò che per lui si avvicina all'idea d'Amore, li considera dei meri surrogati quelle tipologie. Amore per Montale è ricordarsi della persona che si ama. L'Amore che si annida e si rincatuccia in un ricordo, che non ha a che fare col vivere insieme, col condividere le rogne quotidiane, né con la lista sempre troppo salata della spesa. Amare equivale a ricordare per il Ragioniere Sragionante, ché poi se consideriamo l'etimologia della parola, "ricordare" dal Latino "Recordare", derivato di "cor" ossia "cuore", perché i Romani erano convinti che la memoria risiedesse nel cuore; ergo non sarebbe neanche una considerazione fallace. Amare è quello che provi troppo abbondantemente scrittore, solo che pensi di non rimemorare cosa sia sporadicamente, pensi che sia distante da te quella parola, pensi di aver imparato bene solo a sopportare, a crogiolarti nei tuoi libri, nei pomeriggi a mezz'aria in cui ti libri sospeso, comprensivo delle tue elucubrazioni. Ma anche quello è amore... è un amore che sugge nelle vene, e ne sei così colmo che è divenuto un prolungamento del tuo corpo, è per quello che ci fai poco caso, è per amore che ti astrai in treno pesando ai poeti, è per amore che scrivi quando il ronziò furtivo del silenzio ti fa scoppiare quasi le meningi, quando il lato destro del letto è troppo gelato, quando la realtà ha la meglio sui sogni o fuori piove e agogneresti al sole, o semplicemente quando tutto quello che ti circonda t'appare poco più di una latrina malsana. Lasci che le voci narranti si impadroniscano di te, ponderi e rimugini sul domani se è buio, perché le tenebre si arrogano il diritto della riflessione e tu ti approssimi a sperderti in questa pseudoriflessione, a stillarti il cervello come un forsennato in minuziose concatenazioni e soluzioni applicabili quasi mai. Che poi sai bene, ogni ponderazione sarà sconclusionata, si estinguerà sul giaciglio in cui dormi. Il sonno ti avvinghierà, esattamente quando la sveglia starà per suonare, e maledirai lo stridulo "tì-tì tì-tì" costringendoti ad abbandonare il cuscino, che ti richiama al dovere sistematico di una trappola che ami fin troppo, e che ti veste egualmente stretta, ti aderisce addosso perché deve, perché "così è se ti pare". Allora ti svegli, caffè nero e deciso, quello in cui spesso immagini d'annegare o di inabissarti, se guardi troppo a fondo in quel pozzo assorbente. Amaro il caffè scrittore. Perché è convinto che il caffè dev'essere. Perché edulcorarlo con lo zucchero? Ti chiedi, sembra una minestrina riscaldata, ti dici, una menteca amorfa, soggiungi, disperde il vero gusto dell'essenza, sentenzi. L'essenza che cerchi sin da quegli anni in cui ti azzuffavi nella polvere per dribblare un pallone di cuoio scorticato dai rovi, e il gesso che delimitava il campetto ti macchiava irreversibilmente i pantaloncini. Avrai scritto anche di quei ricordi felici, immagino. Te li sarai coccolati a dovere quei ricordi, che nel buio, come Foulard impazziti e fluttuanti vengono a importunarti le notti. Ma ti piace essere importunato saltuariamente dal trascorso di quei tempi. E poi ti piace l'odore del pane al mattino,frammisto alla brina che evapora dall'asfalto. Quell'alba che filtra dalle persiane, e tu la senti serpeggiare e fendere il nerume pece di cui la notte s'avvale. Ti ho visto gli occhi gonfi dalla tristezza scrittore, ma tu ignoravi che li avevo notati, il tuo sguardo da fanciullino continuava a mascherare e a celare. Ma io li scorsi, dietro quegli occhiali da sole, quasi una spanna più grande del tuo volto, prettamente neri come il caffè che sorbisci per inerzia e tristezza e per piacere di goderne, almeno quello, è l'attimo immancabile che ti ritagli. Desidereresti che quegli occhiali mascherassero l'amaro che non di rado, non ti lascia requie e ti rende la saliva fiele grumoso, come se una sigaretta continuasse ad ardere a ridosso dell'epiglottide. Ma gli occhiali mascherano approssimatevamente, gli occhi del genere umano potrebbero anche ingannarsi, ma il tuo sguardo è palese ugualmente agli occhi di altri scrittori, di altri disadatti, di anime convergenti, contrassegnate dalla medesima tua soave maledizione. La malinconia te la porti in auto sul cruscotto, o t'attende appiccicata sui finestri del treno, o incuneata nei lacci delle scarpe. E' sempre con te, e si contende il tuo umore con la gioia che i tuoi occhi sprizzano, se osservi il mare biancheggiare di cavalloni. Scrittore vedi, potrai raccontarti la tua vita, che è tanto anche la mia, sommariamente potrei mimartela con pantomime inaudite, con occhiate decriptate al volo e dissecate sul nascere dal riflesso di abbassamento delle palpebre. Scrittore, esprimono molto i tuoi scritti, ma ancor più le omissioni, i silenzi, e quelle virgole appositamente disposte e pausanti. Le utopie ti si sono state recise, ma tu continui e preservartele con la poesia, in quelle sere stanche e sciatte, in cui desidereresti sprofondarci in quel divano, inabissarti, solo in un silenzio muto e immoto. Scrittore conosco bene i tuoi scoppi di voglia di fare, di realizzare, quante idee ti prefissi, quante eventuali esecuzioni permangono immutate, e se si alterano non è per adattarsi, ma per migliorarsi e affinarsi. Scrittore, non ti limiti ad essere un buon palleggiatore, il goal è stato eccezionale, quella volta che ti chiedesti se la penna avrebbe potuto salvarti. Ma nessuno si salva mai, è una battaglia col finale prestabilito, la vita. Poi soltanto decidere come disporre la primavera calcistica delle tue decisioni, di quell'ambizione che ti molleggia come un guizzo nella linfa che ti scorre, tra le vene del tuo braccio, che s'ispessiscono inavvertitamente se il nervosismo sopraggiunge e vorrebbero sfogare la foga assestando un pugno al cielo. Ma le nocche non sconquassartele così. Ci pensa già la vita e chi ti volta le spelle a lacerarti tendini e pazienza. Scrittore, come monta dentro l'entuasismo se sorridi, contagi tutti con la stessa sveltezza con cui si propaga la peste bubbonica, se le tue risa riecheggiano. Io vorrei urlarti "Gli occhi dei bambini son felici, perché vedono il mondo come non è". E non importa se qualche volta pensi che l'infanzia ti è stata recisa di netto, puoi concedertela contravvenendo al grigiore. Scrittore, io non posso costeggiarti. Ma posso fare di più: posso comprenderti e ricordarti, magari imprimerti in qualche parola, facendoti sopravanzare, furtivamente in un mondo tutto mio, perché se di te ne narro, io ti dipingo e ti plasmo, razionando, forse, il tuo dolore negli interstizi vacillanti dello spazio bianco che accerchia la parola.