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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 23 Settembre 2012
- Visite: 1634
Tutti soffriamo per qualcosa. Se non è così ce lo inventiamo. Credo che l'uomo del sottosuolo dostoevskijano abbia visto lungo: la sofferenza non si debellò allora né colle linee guida del positivismo men che meno con melliflue dottrine ecclesiastiche, l'umano non s'infinita, si corrode sotto gli spintoni delle usure temporali.
Io per me credo di essere ammalata di idee, sì. Mi sono inventata la mia patologia, che ormai è anche psico-somatica. Quando i miei filtrini oculari si scontrano con l'opposto, stridono le mie carni, come se avessi un defibrillatore incastrato nelle meningi, tremo e le mie membra sussultano e ho freddo. Io ho spesso freddo: piedi, naso e mani in antartide. E la testa rasenta l'implosione ogni santo giorno. Odio gli occhi traviati degli stolti, capaci d'inventarsi il male anche solo dove c'è semplicemene un sorriso. Provo ribrezzo per gli indifferenti che si son lasciati rimpiazzare l'Humanitas dalla tecnologie, per i fantocci che invece di dialogare coi figli passano il tempo a riempirsi le cervella di demagogia davanti a scatolette al plasma. Provo rabbia per quest'epoca impegnata a infiochettarsi il futuro con nastrini di consumismo e coccarde-telematiche. Non è progeresso è degenerazione. Va di moda addurre giustificazioni fallaci agli errori mutando le definizioni e sentendosi dannati e possenti. La dannazione non sapete neppure cosa sia. Perché pochi riflettono, i rovelli sono dannazione, l'avere diecimila prospettive e non farsene andare bene una perché consci che è tutto prossimo allo sgretolarsi e che l'evolversi implicherà sempre ed irrimediailmente lo sfaldarsi di qualche cosa. Provo ira per la mia mancanza di costanza, l'istinto ha sempre l'ultima parola su un reticolato di razionalità che non regge, ma che ha fatto fatica a erigersi. Provo pena per la mia codardia nel non saper oppormi all'impulsività che decreta l'azione finale. Non sono un buon arbitro, le mie azioni son sempre parziali e di parte, il senso del bello mi guida in un'ecatombe esplosiva di brutture, poiché si ostina a scovare l'incontaminato candore nel lerciume. Mi sento invecchiata e stremata dalle mie paranoie. Odio le mie occhiaie che conducono all'estremo il riflesso d'abbassamento della mia palpebra per farmi scorgere che cosa? Che cosa pretendo da questo transitare? Io sono sola. E non vuol essere vittimistico copiacimento, perché me la sono scelta la strada assolata. Da bambina sola. Adolescente? Sola. Donna? Peggio che peggio. Mi sono ovattata in un deserto senza sbocco, e quando narro, narro ben spesso di intendimenti miei perché le introspezioni me lo richiedono, il foglio accoglie quando la gente s'annoia d'udire farneticazioni, sono una speculatrice onirica ed emozionale. Chi vuoi che transiti con una sperperatrice? Ho le mani bucate dall'adrenalina, coi miei concetti tutti tarlati che imporporano la mia esistenza. Sto ancora bene, a mio agio, sulle panchine corrose da venti e uniposca. Sono sole anche loro, ma accolgono, cioè si sforzano perlomeno. Provo sdegno per la mia goffaggine emotiva. Per le delusioni che ho cagionato non deliberatamente, per le volte che non ho assolto qualcosa di davvero importante, per tutte quelle occasioni in cui m'incaponisco nel fornire un'immagine di me che non collima affatto con la mia intimità, eppure... C'è un autolesionismo sottile che si prova un istante prima di corrompore l'indissacrabile, è un formicolio agrodolce il valico della perdizione. Io non sono cattiva, io non voglio procurare dolore, eppure carnefice divento perché ho una brutta bestia dentro, si chiama Lilith. Lei è il mio raggrumo di male mai dissotterrato, è l'atto mancato che non ha avuto luogo e su cui ha germogliato la frustrazione, è una depravazione molesta che sbatte come le ali di falena aggrovigliata in una regnatela. Un giorno qualcun mi disse 'i tuoi occhi... avevi l'espessione del demonio, perché quell'ombra ti storpiava?' Non ero io. Era Lilith. Non mi giustifica, ma non ero io. Che ci colpo se la mia rabbia assomiglia alla voglia di gettare sale su un braccio lacerato e sanguinante? Che posso fare per dissipare l'inestinguibile senso di tragico che attecchisce dentro me? Io sono sbilanciata dal dionisiaco. Io vivo di voluttà a tratti, necessito di dolore e di bacio guaritore, non m'accontento e sono insoddisfatta perenne. Il male di vivere? Sempre Lilith. Io salvo i moscerini che annegano nell'acqua del cesso e ogni tanto mi sento Dio. Potrei sbriciolare psicologicamente qualsiasi mente, purtroppo so quali corde strimpellare e che iddio ve ne scampi sempre, potrei ridurre poltiglia e carne per fiere chicchessia, potrei certo ma mai accadrà, perché le parole son più affilate delle lame, talvolta. Eppure a volte basta altrettanto una parola per ridurmi ad ammasso di nichilismo informe. Io mi adatto perché linee rigide non ne posseggo e conseguentemente neppure un'identità, fissa. Il drastico e lo statico mi è inversamente proporzionale, eppure non son maligna, lo giuro. C'è tanto Amore, Dio mio, ne grondo... nessuno se ne accorge, rimane un grido sommesso e muto, serpeggiante verso un dimenticatoio che lo sfuma gradatamente. Sono stanca di raccogliere ogni santo giorno i miei cocci frantumati. Ho bruciato tutte le tappe della mia esistenza fin qui, e adesso a voler sfidare gli eventi colla presunzione dei satiri mi ritrovo spaesata e con un pugno d'intangibile in mano. Che agguanto? Che abbranco? Per chi Scrivo? Perché costruisco castelli premeditati su sabbie che si disfano? Perché i miei intrichi mentali non si rigettano e mi lasciano un tratto lieneare da percorrere? Io sono egocentrica. Al contrario. Non sono altezzosa, l'autostima la lascio a chi si crede più della pagliuzza, io meno. E allora qualcuno mi spieghi le eccendenze. I miei brividi scottano e mi abradono, ma non ho scelto io l'inferno, mi ci son solo ritrovata catapultata. Non ho scelto io l'intermittenza mi veicolano forze troppo immani e sono poco più che una bambina ancora, da qualche parte. Questa donna che è voluta fuoriuscire prima che il tempo l'assemblasse perché ha scelto la mia anima per dimorare? L'altra notte mi tenevo gli occhi pressati, volevo ricordare come si fa, a vedere le luci che s'azzuffano tutte e poi riaprire di getto le palpebre e vedere fiori rossi sulle pareti e sui baffi del mio gatto, sull'armadio e sul suffitto. Abbellire le tenebre. Il nero adornato di faville. Dovrei piantarla di voler vedere luce dove c'è tenebra. Il buio c'è perché c'è qualcosa a cui non si possono appoprtare modifiche, ci sono eventi incontrovertibili e accettarlo costa caro. Stamane sul pullman c'era un uomo barbuto, era rattristato e aveva le sopracciglia attaccate. Avrei voluto dire a Monociglio ' che ti disperi a fare? Siamo tutti finiti. I Vermi faranno un bel banchetto con le tue membra, forse ti concederanno il lusso di lasciarti intatta la peluria ma rilassati, fungerai da Humus'. Il riscatto a modo suo ti dà il suo ausilio, come può, l'arte dell'arrangiarsi delle cose. La vita è tanto meravigliosa quando è semplice. Quando e semplice e te ne rendi conto. Fai spallucce e sorridi genuinamente. Un sorriso genuino che meraviglia è? Vorrei tanto piangere, perché ho smarrito il senso delle cose, i concetti primigenii, le vecchie idee, i comportamenti che adottano le persone qualsiasi. Io non sono qualsiasi. E 'qualsiasi' è sinonimo di migliore in questo contesto. Io vorrei abbracciare tutto il mondo e urlare a tutti di piantarla d'ammazzarsi con le guerre, di stuprare donne, di smetterla coi fraticidi, di inquinare. A che serve? La banalità è splendida a modo suo, perché è ancestrale e si conserva ancora indenne visto e considerato che tutti la snobbano col loro surplus di puzza sotto al naso. Vorrei maledirmi quando l'irruenza s'appalesa e mi fa compiere gesti di cui mi pento post cinque minuti. Non c'è uno scisma tra male e bene c'è una propensione maggiore e dipendente dalla giornata o dalla concatenazione umorale che confluisce verso un comportamento piuttosto che per l'altro. Non c'è un'etichetta e non una visione, c'è un insieme di cose: nessuna completamente esecrabile, nessuna integralmente condivisibile. Il relativismo m'ha rovinata insieme al senso del lontano e alla frenesia febbricitante dei titani e io arranco appresso a tutti questi capricci, ma non ho mai obliato il bene fattomi, mai. Io ricordo tutto maniacalmente e le mie somme le traggo impulsivamente, coi calcoli tutti errati. Ero una chiavica in matematica, che m'attendevo come responso? Andavo bene in Italiano. I temi sulle primavere erano i migliori, facevano il giro di tutte le classi, anche in quinta: 'così si fa un tema' diceva la mia maestra di italiano. Simultaneamente quella d'aritmetica cestinava le addizioni e cose così. Io voglio fare della mia vita una grande sfida, vivere come gli sciancati ma magistralmente e edificare un grande diario col materiale concessomi da questi giorni arrancanti, cosicché la Letteratura possa annoverare i miei contenuticchi catalogandoli come 'la feccia degli autori minori'. Io non sono neppure paragonabile alle feci degli autori minori. Ma in fin dei conti anche la defecazione esiste al mondo e nello spazio che ricopre è essenziale, chissà... forse mi faranno fare la stronza. Con me l'hanno fatto una vita un po' tutti. Forse il riscatto a modo suo mi ribalterà ponendomi prima sul podio dei perdenti, di quelli che si fermano a metà strada. So benissimo che sto annoiandovi e mi cruccio. Vorrei raccontare e narrare di romanzi a lieto fine, ma per l'intanto riesco solo a industriarmi a comporre affastellamenti di quart'ordine, mi dispiace tanto. Eppure mi riprometto sempre di migliorare, durante la notte o durante le docce fioccano buoni propositi poi l'inerzia e l'istinto mi rompono perennemente le uova nel paniere. Io vivo di concetti astratti del tipo: per me è più Importante un 'Vuoi amarmi' rispetto a un 'vuoi sposarmi'. E' più importante un pensiero dell'atto stesso della cosa in sé. E più importante la voglia di scrivere che scrivere bene. Più importante il raggio che s'estenua per allungarsi del sole stesso: è lo sforzo del prolungamento che decreta... Più la formica che trasporta la mosca tre o quattro maggiore confronto al suo peso, ad un Umano che strasporta una cassa di birra per sbronzarsi. Sono alterata e disconnessa da questa realtà che misconosco energicamente e che mi ha impedito la felicità del sogno, ma sono anche tanto ostinata e navigo egualmente nel fittizio. E ora spegniti voce narrante. -Chiara Nirta-
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