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Non era di questo mondo. Aveva i capelli neri e serpentini come bragia dell'inferno, spenta. Fumante. Nerissimi che non disgiungevi un capello: una chioma voluttuosa e spessa, raggrumata di sudore e stanchezza.

Gli occhi lapilli in penombra, verdi e maculati nella luce. Ma lui era un demonio, gli era proprio il lapillo inestinguibile delle fornaci luciferine. La barba incolta, il pizzetto drittissimo e curato maniacalmente, la bellezza inquinata di Mefistofele avresti detto! Le sue espressioni erano di dolore stantio, ma con un sarcasmo cattivo e disilluso se le scrollava di dosso. Non gli si avvicinava nessuno troppo: aveva il portamento del capobranco Astaroth. Se ti guardava male te la facevi addosso, aveva le braccia nerborute e mani singolari. A me mi osservava in diverse declinazioni, mi temeva. Perché io non gli scivolavo addosso come il restante. E per 'restante' intendo tutto. Schiumava misantropia e misoginia. Che gli avevano mai fatto? Oramai il compiacimento della vittima in cui si crogiolava che sapeva di fiera ferita e dannata gli calzava a pennello. Gli avevano spappolato il cuore un passo dopo il non ritorno. E lui di ritornare se ne fotteva, molto onestamente. Non sapeva stare fermo, aveva una gestualità di possanza che non avresti smesso di guardarlo mai più: il compimento di un'opera d'arte. L'incendio dell'indissacrabile, la meraviglia che s'incrina: uno spettacolo raccapricciante insomma. Come veder bruciare una reliquia nella notte. Sai che sta ardendo e ti crucci ma al contempo ti coglie una voluttà serpeggiante di male, e la tua anima può esser rimasta appesa al chiodo ed esser marcita nell'immacolato inutilizzo: la percepisci egualmente la voluttà dello squallore, e ti macchia l'anima. Come nicotina sulla superficie candida dei polmoni... e come tale ti assuefà. Così era scrutarlo. E lui lo sapeva bene il potere che emanava, il fascino della consapevolezza fomentata dall'ostentazione di un ghigno vestito da sorriso, ecco cosa fertilizzavano i suoi denti in bella vista. Era qualcosa quell'uomo che ti dicevi 'odia il mondo, da fuggirci a gambe levate. E' un coagulo di ombre' e fuggivi sì, ma un pezzo d'affetto glielo lasciavi. Si comportava come quei bambini che si vergognano, gli offri la caramella e la rifiutano energicamente per orgoglio puerile. Ma nel loro intimo agognano. Lui così. Gli offrivi affetto e t'irrideva: 'Io non so cosa farmene'. Però poi veniva e ti poggiava la testa sul grembo colle lacrime agli occhi, senza malizia, gli serviva una superficie cui riposare il tumulto squarciante. Nulla più, e la caramella furtivamente la derubava, quando fingevi di non vederlo, ma era troppo intelligente e 'doppiogiochisticamente' conscio di esser stato inquadrato nel campo visivo. S'illudeva della convinzione che non sarebbero state mai codificate le sue debolezze, il restante infatti si limitava, di me s'intimoriva perché lo frugavo e smascheravo sempre. Un sorriso. Un ghigno. Un abbraccio. Un' offesa. Ma sull'altalena io c'ero salita molto prima di lui, nonostante la sua trentina. Aveva quasi fatto i conti col mondo tutto, era zeppo di cicatrici e scudi d'Achille, la sua paura gli proveniva dall'individuazione mia del suo tallone, le corde fragili io sapevo sfiorarle senza lederle o strapparle. 'Io sono nato solo, ho vissuto sempre solo e sto bene, tu lo sai com'è... perché il tuo studio non è inabissamento nella solitudine? Eh? Sei sempre sola col libro sottobraccio, sai com'è... 'sì, ma io consto delle mie feritoie, qualche cosa filtra...' e uno sguardo interrogativo da parte di entrambi chiudeva un labirintico non dirsi nulla. E' un caro amico Astaroth, Torino è un'ottima città per i demoni, trovano requie, ché a differenza di come pensano erroneamente tutti i poveri diavoli pace non ne hanno, quelli sono i Santi, ragion per cui io propendo sempre per i dispersi. E i demoni lo sono. Gli angioletti candidi e perfetti mi sanno di sintetico, di non vissuto. Chi vive l'anima se la sporca, chi vuole avere il senso del bello per ritrovarselo anche nella pozzanghera e nel lerciume deve aver forzatamente transitato nelle latrine ed essersi riempito le narici di puzza di piscio, prima di decrittare la meravigliosa fragranza dei giardini. 'Io sorrido sempre forzato', 'Non farlo', 'Devo'. Molto imperativo. Imperioso. Sempre abbigliato di nero, come se fosse da poco di ritorno dagli inferi, stonavamo: la sua fisionomia era l'esatto opposto della mia: capelli neri, colori scuri, tenebre dai suoi occhi, intristito, cupo, ghignante, luciferino, spavaldo, andamento da cane randagio e sguardo che t'infilzava, polsi spessi, intoccabile e senza concessione di perdono. Era lo spettacolo viscerale e perverso del perfetto che s'incrina, di una disgrazia che sta per accadere e che nell'istante prima del collasso e dell'avvenimento ti vellica il bassoventre con una sensazione subdola di piacere cancrenoso. Lui era l'esaltazione del mio senso spiccato per il grottesco, ammiravo la sua perseverazione costante nel dissociarsi dal mondo, che se lo teneva stretto soltanto perché occupava materialmente spazio, ma di fatto viveva lo strazio dei suoi giorni negli inferi Astaroth. Una delle personalità più stupendamente desuete e dannate che abbia mai frugato psichicamente. C'è qualcosa di maledettamente errato nel senso della bellezza. Il suo non era uno splendore ammirevole, era l'inusitato sciabordio del cristallo che si designa deliberatamente di frantumare per udire un suono che il mondo avrebbe invece voluto risparmiarsi. Astaroth era un contravventore alla bellezza statica. Un uomo perfettamente assiepato di gente d'ogni risma che manteneva costante il suo metabolismo d'inossidabile solitudine. I suoi capelli folti e neri, spessi come corde, neri come una galleria di notte, una perfetta rappresentazione di buio che pure le ombre s'intimorivano e giravano al largo. Interagiva da mondi remoti, era lì eppure non c'era. Mi considerava come una scorciatoia fuori percorso, evitandomi come la peste, ma non appena m'allontanavo lo percepivo in disagio. Ero l'unico spiraglio, ma avrebbe vissuto benissimo privo, una toppa in un portone segregato dall'interno se manca, non è una gran perdita. Eppure se le onde tutto intorno si dimenavano mi proteggeva 'Che c'è?' 'Nulla' si stringeva nella felpa prettamente nera e io smettevo di esistere, ma prima se ne accertava, mentre io sorridevo di sbieco e mi chiedevo ( e mi chiedo tutt'oggi): perché mai ci hanno detto che la dimora del demonio era ubicata fra gli abissi, Sant'Agostino ti sei scordato di Torino. E' un grande amico Astaroth, non avrei mai potuto scrivere priva della sua declinazione di misoginia, perché narrare al mondo solo di borghesi dabbene? La vita inaridisce, spezza le gambe e i lieto fine non sono d'uopo né una costante. D'uopo è l'accettazione anche del lato oscuro e non importa se le venature si sono aggrovigliate tutte sfumando il candore e il senso della correttezza nel senso comune. E' vita anche questa. 'Come fai a conoscere così bene l'animo umano... così piccola?' 'Le strade per l'inferno sono tante ed i cunicoli per trapelarci... stretti.' Non ero neppure io di questo mondo.

Di Chiara Nirta