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(Quest'oggi invece del consueto articolo vorrei proporvi questo racconto, scritto da me. Desidererei lo leggeste, è breve ma inteso, un po' contorto, ma in fin dei conti è quello il suo scopo: destablizzare, penetrare nella vostra pische, in un altalenante andirivieni di immagini quasi tattili per quanto effimere, proiettare dinanzi a voi attraverso ologrammi danzanti con il supporto delle parole, fino ad indurvi a chiedervi: "Perché? " "Provo anch'io questa medesima sensazione?" "Che significato ha per me scrivere oppure leggere?" C'è una "Lilith" anche in me?).

Inizio Gli altri non vedevano. Erano orbi, non notavano l'abisso, eppure lo calpestavano, lo rasentavano danzando. Ignari. Non sapevano di vivere, si limitavano a compiere sistematicamente le azioni quotidiane. Al massimo gli inibiva la serenità la lista della spesa, troppo pretenziosa, poco economica. O lo schermo disseminato di puntini monocromatici per causa del mal tempo. Nessun rovello, nessuna miniera Esistenziale in cui inoltrarsi a tentoni. Suppurava nella loro vita il convenevole e l'apparenza. Lilith no. Si vergognava terribilmente di quelle montagne effimere che doveva scalare. Si dannava. Primo rovello, era totalmente consapevole che la parola "pace", poteva solo scorgerla lontanamente nella vita degli altri, che la sua irrefrenabilità la destinava ad altro. Era un terreno scosceso quello che Lilith doveva tastare con attenzione, ma irto ed ispido, pieno di buchi neri sotto al suolo. Non voleva saperne di spolverare né di rifare il letto. Lei voleva scrivere. Solo scrivere. Soltanto. Ma che cosa richiedeva questo compito? Il lettore doveva avere dirimpetto una realtà certa, uno sprazzo maroso di vita che scorreva nel rigagnolo della pagina, altrimenti lei si sarebbe rifiutata di imprimere anche una sola parola. La forma che strutturava le sue frasi, era tutt'altro che diafana. Era piuttosto un'esondazione di flussi di coscienza. Erano le descrizioni minuziose e sconvolgenti dei moti di pensiero, dei moti di strazio. L'euforia che le farfugliava nelle viscere. E la polvere? Non amava svolgere mansioni, sulle mensole s'ammucchiava, eppure sulla sua anima non si depositava mai. Solo qualche volta, del pulviscolo triste, come neve, ma non bianca... le si accalcava sull'animo, e lei, sistematicamente e con pazienza si scrostava di dosso il nerume. La penna, aspirava quella pece, era un buon materiale con cui rivestire le parole. La pace dei sensi aveva un prezzo troppo alto, ed i dazi che le venivano imposti contribuivano ad esacerbare il prezzo: nessun rimedio. "Pace?" Si ripeteva. "Macché, meglio la pece." Si ripeteva, reiteratamente. "Io misconosco la parola citata. Sono nata dal Kaos, ed ora troneggio col calamaio e la penna in mano, immortalo l'ordine disgregativo dell'oblio, e m'innamoro sempre dell'impetuosità. Ci sono follie che si contraggono come un virus, infettano... si moltiplicano i microbi della smania, e la cura è solo temporanea. Io sono nata per raccontare agli uomini una malinconica realtà: Essi son granelli, sono pulci che il vento solleva, e loro si sentono tremuli senza ragione, non sanno che li sospinge un tifone. Ignari del tempo che gli piove addosso, quanto spreco d'occasioni, e incoscienti sperano in nuovo domani. Ignorano forse che il tempo è casualità, e nella moltitudine degli attimi la coincidenza nasce da una miriade di concatenazioni estemporanee. Eppure li amo, gli Uomini, così grandi nella loro minuscola finitezza, ingegnosi e indaffarati, conquistatori e taccagni. Cattivi e teneri, che specie strana sono questi cocci di carne." Scandiva la sua remota voce. Lilith era una ninfa diabolica, mietitrice che s'inteneriva difronte ai tramonti, ai sorrisi espressi di soppiatto, ai visi floridi dell'infanzia, alla pelle tenero-avvizzita della vecchia, di fronte alle foglie d'autunno rattrappite, di fronte allo sciabordio delle onde, delle pietre consunte dal tempo. E ne scriveva, ne narrava, li manteneva in vita nell'immortalità della parola: Tutto lì sopravanza, oltre la caliggine del tempo, alla bruma del passato, oltre la foschia del già detto e del futuro, anche. Lilith spolverava le sue rughe trasversali da pagliuzze dorate, sudando falò ed estati, che sul suo viso s'erano infuocati, e ne scriveva. Nello scuro s'annidava, nell'immutabile ciclo storico che per gli uomini è Storia. E sorrideva maliziosamente, frugava all'interno dei tempi andati e sussurrava"quanti errori, guai a voi futuristi... guardatevi le spalle, dal passato desumere dovete, e non affondare più le calcagna in Quell'errore, futuristi senza scrupoli, prima di guardare l'orizzonte, sconsiderati, voltate l'occhio a ritroso... e solo postumi dovranno essere i vostri passi avanti." Lilith, aveva un'apparenza normale, in ogni anima s'annidava accovacciata negli antri più reconditi. Decodificava, decriptava i congegni compositi delle anime, ne suo lungo battito di ciglia. Lilith conobbe i grandi, gli sussurrò le parole adatte, scrisse i più grandi poemi, per mano dell'autore che ospitava la Vita. Lilith era senza maschere, era fluida e scorreva oltre il vento, tra Le langhe, negli interstizi tra i granelli polverosi, era il riflesso più intenso di ogni riverbero. S'incarnò nella Poesia. Lilith era Vita e lo sapeva. Lilith era Parola e proferiva. Lilith donava all'Uomo, e pur di dare in quelle anime si estingueva... ma non lo sapeva. E poi amava fingere, innocentemente.