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Il dimenticatoio mi ha inghiottita. O per meglio dire, l'ultra nichilismo. La precarietà dell'esistenza ha sfibrato ulteriormente le mie cognizioni. Non riesco a creare un mantenimento costante perché il transitorio leva venti troppo forti contro il mio volto e mi scompiglia tutta.

Non trovo locazione né significato. I miei Credo si sono notevolmente affievoliti come se fossero stati esposti ad uno strascichio ciclico sull'asfalto: paff! Dissipati. Ho fatto un bagno tra la folla, nei tram ed attraverso piazze Torinesi. Li ho visti tutti, quei volti: C'è chi il suo disagio lo manifesta deteriorandosi i polmoni con la nicotina, chi si accascia smarrito su panchine consunte, che presumibilmente fungono da isole pedonali su cui si appollaiano le anime smarrite, come approdi per marinai dispersi. C'è chi preferisce tingersi i capelli di rosa bubble-gum, come quegli uccelli dalle piume colorate che ostentano colori sgargianti per intimorire il nemico. Soltanto che gli animalia intimidiscono altri animalia... stesso calibro, stessa portata. Io sono Cassie, un'essere umano... talvolta mia nemica è l'esistenza, e lei non s'intimorisce neppure col rosso sangue. Sporadicamente mi chiedo se questo mio vagare per vicoli, sostare su panchine e muretti... nel vano tentativo di riscontrare un senso che mi si possa gradatamente "cementizzare" addosso, sortisca il suo effetto. Ma la mia fiammella gradualmente non fa che indebolirsi sotto i colpi ben assestati delle domande, che non lasciano vincere neppure un insulso round alle risposte. Oggi il cielo era squarciato ad Est, nubi si diradavano esattamente come una pennellata di colore che s' assottiglia nel corso della stesura. Allora è lì che pensai a Montale: "La maglia rotta nella rete" mi son detta, è lì che si cela? E' lì che s'apre? Non ho saputo rispondermi. Oramai le maglie intricate del mio viluppo son sempre più fitte e i piccoli botri che ci sono non consentono neppure il passaggio di un soffio d'aria. Tutto asfittico, tutto opprimente. Il cielo ch'è lo spazio più immenso, m'appariva solo un coperchio grigio. Un coperchio uggioso che imprigiona questa menteca riscaldata. Una menteca liquefatta priva di gusto, che non ha ragion d'essere, che continua a gorgogliare per inerzia, perché le particelle che la compongono si incaparbiscono nel cozzare e nel dar vita a delle energie. Son Cassie la gramigna, perché nonostante antiestetica e priva di utilità godo nell'alterare il quadro conformistico-ideale che si prospetta in un giardino tutto uguale e asimettrico, io sono l'asimmetria, il disagio, la sconclusionatezza. Non ho una guida che possa indirizzarmi nel vicolo meno periglioso. Semmai possibili candidati come guide, ma poi rinunciano sempre immancabilmente, la mia non è una strada asfaltata. E inerpicarsi conduce al nulla, dopo tutta la mole di fatica. Ma nessun nulla traboccante di altro nulla, proprio niente, neppure quello. Esattamente il siderale nulla: incolore, inconsistente, incorniciato da se stesso. C'è qualcosa che supera l'arrendevolezza. Ed è il suono sordo. Un suono stantio che neppure sibila. Fosse quel tipo di suono che perlomeno la notte, nello buio riesce a roderti le meningi. Neppure, non si scomoda nemmeno a farti rammentare attraverso il disagio che sei vivo. Perché se senti una mancanza, se avverti il rasposo senso del tassello mancante, allora è segno che la tua vita anela a proseguire, a seguitare. Io non avverto nulla, neanche l'impercettibilità. Il corto circuito derivato dal mio troppo sentire ha alterato tutti i miei sensi, che conseguentemente per proteggersi ed anestetizzarsi dal continuo inquinamento percettivo son mutati in un grumoso impedimento, mancante d' intercapedini di scappamento. I miei sensi sono un piccolo raggrumo che si limita a sussultare per le implosioni che lo autofustigano a causa dell'inetta capacità di transitare oltre. Sono una gramigna rovello che non giova, si limita a nuocere a se stessa, perché in nessun prato è gradita. Mi corrugo, mi raggrinzo e mi contraggo, esattamente come un muscolo cardiaco, ma pompo a vuoto e oltretutto godo di un'aritmia stanca e poco ritmata. Mi sento come una carpa fuor d'acqua, boccheggio in un'atmosfera che non è mia, che non m'appartiene. Sono incapace di nuotare, le mie branchie son recise, a testimoniarne la vecchia esistenza rimangono detriti di protuberanze vitali, inutilizzabili: semi scorie. La speranza l'ho lasciata nel mar morto, e lì s'è omologata anche lei allo status vegetativo... io che l'omologazione l'ho sempre aborrita. E dunque preferisco la notte, che intercede metabolizzando il senso stanco di un'utopia che s'è corrosa. S'è sgualcita, disillusa, dietro una raffica di emozioni che han bucherellato le mie speranze. Ferace la ricettività, sebbene m'aiuti esclusivamente ad acquisire cognizione d'impotenza. Un immobilismo versatile, il mio. Se il sole smette di dardeggiare la mia linfa di pianta potrà dunque arrendersi al suolo su cui son nata spontaneamente, sull'asfalto che ha ospitato i miei passi senza impronte. Cosa vuoi che importi al mondo se un filo di gramigna s'immalinconisce?