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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 28 Febbraio 2013
- Visite: 1444
E' un uomo che ha per storia se stesso. Eccolo seduto, con una donna che ha conosciuto poche ore fa, e sorridere di tutte quelle confidenze che di solito si tacciono alle madri e talvolta anche a se stessi.
Eccolo aprirsi genuinamente senza difese né remore, e la donna coinvolta da quell'appetitoso conoscere, allettata da un brivido di pettegolezzo-curiosità addentrarsi nei meandri di quell'entità aperta. E' un uomo che impara a conoscersi attraverso l'altrui reazione, sa bene che la dimestichezza di se stessi filtra attraverso la conoscenza altrui. Il suo nome è Ivàn. Ivàn è un raccoglitore di piccoli spaccati di esistenza, un contravventore di piccole convenzionalità, ma non sono comportamenti che deve sforzarsi di adottare, è alquanto naturale per lui. E' attratto dai minuscoli esperimenti che hanno luogo quando i suoi atteggiamenti disintegrano quella che per tutti gli altri è normalità. Ivàn s'incaparbisce e dissipa tutta la sua vita nel tentare di districare nodosi e impercettibili differenze che i più neppure avvisano, ma si limitano felicemente a combattere col grosso dell'esistenza, figuriamoci se potrebbero mai smarrirsi nei marginali centimetri che mutano l'angolo d'osservazione della realtà. Eppure Ivàn non è cresciuto in un ambiente che potrebbe definirsi troppo 'aperto' o estremo, anzi, sua culla è stata la protettiva e retriva mentalità provinciale d'un paesotto genuino e poco esposto alle bizze dell'andirivieni cittadino: la sua realtà sarebbe dovuto essere rozza, grezza e bastante. Eppure già da allora qualche cosa di furioso smanettava dentro di lui, non riusciva mai ad acquisire una posizione certa nel corso della sua fanciullezza, ma questo handicap decisionale non aveva a che fare con l'opportunismo; chiunque dall'esterno avrebbe potuto creder lui intento a non scegliere deliberatamente per mantenersi l'agilità della banderuola, qualora il caso lo richiedesse, invece non intraprendeva scelte drastiche perché la relatività, la finitezza umana, e la fraintendibilità lo costringevano ad astenersi con un senso di pudore da una certezza decisiva che lui codificava piena di tarli e approssimativa, ci pensava fino a rasentare la paranoia, prima di pronunciarsi definitivamente. Ivàn crescendo ed erudendosi, campando anche solo, intuì che è impossibile esimersi dall'interpretare, è anche altrettanto impossibile addurre l'univocità come soluzione o modello esemplificativo di una qualsiasi realtà o verità universale. Il corretto baricentro per lui era mantenere la giusta gradazione, agire mosso dalla gradazione più consona e precisa possibile. Vedere, osservare, interpretare, stabilire, dosarsi, interagire, persino capire con la gradazione più idonea: questa era quasi impossibile a raggiungersi, ma con il buon ausilio dell'illusione pronta a tappare le falle dell'instabilità ci si sarebbe potuti arrischiare a edificare un giusto baricentro equidistante dalla relatività tanto quanto dalla drasticità, ecco che quella era la gradazione più congeniale. Ivàn aveva ben capito che non si è liberi giammai e che per noi agisce la reazione preminente della commistione di ciò che le esperienze e il caso hanno fatto di noi; oltretutto le sensazioni sono le maggiori alteratrici della realtà che là fuori rimane immota e insapore, mentre dal nostro filtrino emozionale ci appare or inasprita or edulcorata. Un pomeriggio come tanti Ivàn era sotto casa, istantaneamente decise che aveva voglia di un buon caffè visto che la noia gli aveva sussurrato... si ritrovò seduto in un locale ben fatto e molto in voga, zeppo di genti d'ogni sorta, abbigliati ammodo e dai visi atteggianti fra l'aristocratico e il superbo. Lui era in tuta, nessuno schiarimento di voce tendente all'aria sobrio-borghese, rideva sguaiatamente anzi, perché la cameriera si era versata il Jin-Lemon addosso. Distonia. La volta precedente s'era ritrovato in una bettola a bere una latrina di cappuccino, fra gli ubriachi e i reietti lui era vestito da uomo dabbene, dall'altra parte della città. Disarmonia. Il divario era nato dal fatto che il locale in voga trovandosi esattamente sotto casa sua e da lui abitualmente frequentato nel modo informale dell'amicizia che si incontra davanti a un caffè, l'ha dissuaso dall'indossare abiti conformi al luogo, si sentiva in un luogo familiare che non richiedeva congetture, mentre per l'altra gente che proveniva dall'altra parte della città, il vestito d'occasione che si usa quando ci sposta per andare da qualche parte, anche solo per uscire era stato richiesto sia dalla convenzionalità che dallo stato d'animo promanante l'illusione di essere 'da qualche parte' purché non in luoghi frequentati sovente. Così aveva agito all'inverso l'abitudine e l'emozione di Ivàn quando si ritrovò elegante in un incongruo quadretto, dall'altro lato della città rispetto casa propria. Lo intuì anche in quell'occasione mininale che la vita è fraintendibile per antonomasia, nella moltitudine di possibilità combinatorie avvenute, in corso e avvenenti nella potenzialità eterogenea del tempo e dello spazio noi non siamo che caso anagrammaticamente fratello gemello del caos, e i nostri occhi o universi con le loro piccole leggi innate non possono sempre intendersi, forse non accadrà mai, e l'illusione d'essersi capiti è solo la mancanza di disincanto. Così definiamo errore o incomprensione solo ciò che non potrà mai combaciare col nostro intendimento; partendo inoltre dal presupposto che per 'nostro intendimento' si intende a parte una sequela variabile di avvenimenti accalcatisi a formare una concretezza multiforme. Ciononostante come un sortilegio benigno, questi pezzi di puzzle incollimabili abitano assieme un'armonia immensa che contiene perfettamente ogni stonatura, e tutte le sbavature traboccanti che zigzagheggiano la superficie assoluta di questo scarabocchio senza capo né coda in cui aleggiamo sempre annaspando, mentre ad accettarne l'inafferrabile mutevolezza risparmieremmo energie ed acume. Eccolo Ivàn al bar a svelarsi di tutte le sue paure, con la sconosciuta di cui non rammenta neppure il nome, ma è davvero importante? conta davvero definir(la)? -di Chiara Nirta.
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