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Amelie aveva avuto un grande dono dalla vita, sentire. Sentire troppo. Fin da bambina aveva i sensi smodatamente sviluppati e la sensibilità di chi le cose non riesce a farsele scivolare addosso, proprio per principio.

Una storia banale, una storia come tante che rimangono taciute, che il mondo affossa perché vissute da anime troppo deboli per odiare, per azzannare la stessa vita a sangue. Eppure credo che bisogna essere molto coraggiosi per non odiare, per non lasciarsi avvincere dal rancore, al contrario. Gli attacchi di panico le stroncavano impietosamente le serenità bambine e così fu per tutta l'adolescenza. Solo la scrittura preservava Amelie in parte dagli spintoni indifferenti del caso crudele. Il caso che ci disperde e ci rende esuli. Amelie non si preoccupava eccessivamente dei giudizi altrui, temeva piuttosto la severità verso se stessa. Si umiliava ponendosi sempre obiettivi inarrivabili, perché inconsciamente i traguardi raggiunti le spegnevano la foga di ambire, la gioia dell'attesa di ciò che si spera dovrebbe compiersi. Il suo modo di scrivere era contorto come la personalità coraggiosa a metà che la caratterizzava, perché corrompersi? Perché modificare le proprie attitudini se la natura ce le ha assegnate così? Perciò non voleva alterare quel modo intricato di narrare, anche se fosse stato egoistico era il suo pezzo di mondo il foglio, e l'inchiostro scuro il suo cielo malinconico che di lì a poco sarebbe divenuto inspiegabilmente vivace, vivace della stessa tristezza leggera, lo doveva a se stessa il seguirsi a ogni costo, o almeno a quell'universo che l'accoglieva in silenzio, senza chiedere. Durante le docce chiarificatrici che generalmente si concedeva per ovattarsi dalla frensia del mondo, la coglieva un brivido ansioso, l'acqua scorreva sul suo corpo e lo stillicidio violento di gocce si confondeva con la paura di un fremito di morte, interrompeva l'acqua scorrente di getto e respirava forte: una bulimia d'aria che rivomitava poi in un annaspare terrifico, la gola, la gola, le si segregava la gola. Si tastava tutto il corpo nudo, come per accertarsi che le sue membra fossero tutte lì, in quel candore lattiginoso da bambina che le conteneva; i muscoli le guizzavano come ad una gazzella che sfugge dal leone che tenta d'addentare a freddo un brandello di carne succulenta. Era come se da un momento all'altro avessero strappato un boccone di carne anche a lei: il cuore martellava, e il paradosso dell'orrore sgomitava facendosi spazio, irreprimibile: il timore di morire, la sensazione inesprimibile di un cataclisma la faceva sentire in preda ad un esubero di vita, percepiva tutti i sensi accesi e sparpagliati da confondersi in un'unico grumo, ma era tutto lì: corpo intatto e le pupille dilatate per l'orrore. Era viva e indenne. Cosa vedeva Amelie? Cosa proiettavano quegli occhi scuri sulla vasca tra le gocce d'acqua disseminate a casaccio? C'era solo un ricordo che la faceva stare bene, soprattutto in quegli attimi interminabili, che le concedeva la pace momentanea: le serate al mare di quando era bimba. La transizione del sole ancora scottante che stava per annottare e il colore violaceo che si diffondeva all'orizzonte, una scia di fucsia flebile, e il mare chiaro in lontananza, il mare non truculento ma calmo e poco sciabordante, le nubi filiformi appena accennate e bordate d'azzurro light, la luna prematuramente spiccante e il pensiero d'infinito che la veniva a trovare, mai in modo violento allora. S'approssimava piano il senso dell'oltre in quel tempo, come se avesse avuto un'accortezza per quell'anima bambina facilmente spaventabile, con passo leggiadro si diffondeva a basso ventre un vuoto celeste d' immanente, la testa si librava fluttuante e sgombra da intendimenti e considerazioni drastiche, gli occhi ancora vispi e non accerchiati dalla stanchezza, non ancora resi inservibili dalla miopia le consentivano sguardi lunghi tutti ad un fiato, i polmoni freschi e non anneriti dal fumo di un veleno mortale le concedevano odori di vita sicura venati di salsedine, era in pace in quel buco di paese. La pace derivante dall'inconsapevolezza, la bastante sensazione protettiva dall'ignorare altre realtà, l'essenziale che il tempo sgrossa era tutto lì. Era tutto lì. Gli opportunismi si traducevano nell'eludere la cena e rimanere sino ad ora tarda sulla risacca a indovinare la lunghezza delle onde. La fanciullezza che impedisce la furbizia della prevaricazione, l'innocenza del rossore, era tutto lì. Ecco cosa la faceva stare bene, eppure ce lo ripetiamo dalla notte dei tempi che qualsiasi cosa o situazione viene apprezzata quando oramai non ci è più dovuta. Teoricamente lo sappiamo, ma in realtà non ce ne accorgiamo mai se non quando termina, quando la smarriamo; eppure le cose, quelle cose, sono sempre tutte lì, siamo noi a cambiare, noi a discostarci, noi ad agire e provare sensazioni diverse, la realtà perlopiù rimane grossomodo immutata. L'evoluzione non sempre migliora, qualche volta inaridisce, talaltra inasprisce, chissà perché... chissà perché decidiamo deliberatamente di andarcene da ciò che poi rimpiangiamo. La vita da allora era molto cambiata e Amelie appresso, l'eterno bilico di se stessa era diventata adesso. Una pedina confusa in una perenne lotta di passato, presente e futuro, futuro dai confini incerti che s'azzuffa col celere presente. Il tutto, esacerbato da quel troppo sentire, che la costringeva a scappare dalle sensazioni troppo audaci e al contempo la inchiodava alla ricerca di ciò che la spaventava. Come se la vita fosse una gara a rincorrere i fantasmi che dovrebbero perseguitare noi, fino a creare un spavento duplice e di rendita, la paura di quei mostri tormentati dalla nostra condanna a seguirli, e il nostro terrore che loro seguano noi, come se vittima e carnefice coesistessero potenzialmente completandosi, inseguendosi come galeotti, senza un perché che attenui questa ininterrotta corsa. Amelie scriveva e s'inventava la vita che non avrebbe avuto il coraggio di vivere, proclamandosi dèa salvatrice dei mediocri come lei. Ma cosa c'era da salvare? Le creature come lei avevano impiantate una bomba ad orologeria che conduceva di coscienza alla perdizione, l'unica attenuante era la concessione del temporeggiare limitato, prima che il crash del disadattamento le facesse crollare ogni certezza, prima che spazzasse via ogni fazzoletto di terreno saldo. Amelie conduceva con sé il peso di ciò che non aveva avuto, le mancanze incolmabili cui la vita non può sopperire per forza di cose, ma senza rancore o senso del tragico, era solo una sequela di incompiuto che le occorreva per enumerare i tasselli che mancavano all'appello, gli ingredienti assenti per edificare una qualche sicurezza. La sicurezza: una delle più grandi bugie illusorie che siano mai state designate, una bugia come l'univocità dell'obiettività... c'è semplicemente chi stabilisce di condannarsi alla ricerca dell'irraggiungibile. Il suo percorso verso quell'infinito che voleva snidare e che oggi le si manifesta prepotentemente a sprazzi è articolato da orme d'inchiostro, da istanti di paura nera che si traducono poi in parole e attestazioni di vita, troppa vita tutta insieme. E la troppa vita tutta insieme si coagula in un boato assordante nel bel mezzo della solitudine più crudele: a soffrire, a lenirsi le ferite si è sempre da soli, segregati nel proprio dolore dall'impermeabilità dell'individualismo soggettivo, in quegli attimi l'urlo straziante del tentacolare esubero vitale colpisce affossando, proprio quando si è più vulnerabili ed isolati. La pietà, la pietà è l'unica soluzione. -Di Chiara Nirta.