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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 26 Maggio 2013
- Visite: 1494
Mi ricordo bene le facce scavate di alcune donne del Sud. Avevano l'aria triste e gli occhi spenti, vestivano rigorosamente di nero: un lutto di vent'anni prima che gravava su una vita già mezzo inabissata, nascondevano nelle rughe impolverate una saggezza greca, un urlo latino-agreste, una malinconia rotta nella voce, ma era una voce fiera. La voce ferma di qualcuno a cui le convinzioni non sono state sgranate. Perché la sicurezza si guardavano bene dal preservarsela, avevano solo un mondo che era 'chiddu e bbasta', e ogni sicurezza non poteva collidere e sgretolarsi perché non c'era attrito col diverso. Mi ricordo bene alcune donne del Sud dal viso austero, che 'fra vespero e nona' non si facevano vedere in giro, s'ammucchiavano sudate nelle cucine d'un cubito a rosolare carni grasse per uomini affamati di giornata. Mi ricordo gli urli dei ragazzi, che da lontano non si capiva mai se avevano accalappiato una lucertola o s'erano invertiti le ossa cadendo dai muretti zigzagati; mi ricordo di quello schiamazzo puerile nel pomeriggio, che era un tonfo sordo e secco, un tonfo senza ritengo contro le pareti vibranti dell'afa. Mi ricordo che ai margini dei paesi del Sud stavano le svergognate, quelle che fra le gambe avevano avuto più di un masculu, ma per Amore... per Amore erano state scacciate, perché l'istinto aveva avuto la meglio sull'etichetta del contegno antico. Erano i 'fimmani già cuminciati e allura ne vogghiu', erano gli uomini patriarcali che 'Eu a vogghiu frisca o nenti'-. Erano qualcosa di meraviglioso quelle donne, conducevano una vita perfettamente solitaria, perché chi va con lo zoppo impara a zoppicare e loro camminavano con quattro arti, altroché! poverette dovevano usare mani e braccia per non annegare, perché lì il sole troppo forte ti liquefà il cranio e le mentalità ripiegatesi su se stesse, pure. Le ammiravo, erano forti, avevano sempre racchiuso nella tristezza e nell'impotenza che s'ostinavano a combattere un non so che di incorruttibile, la testa alta, le gambe provate e il cuore raggiante. Mi ricordo bene delle piazze desolate in estate e dei treni che in lontananza sfrecciavano col suo fischio conservatore di littorina. C'è qualcosa di immanente che grava su quei bellissimi paesi del Sud, è un'insolenza che s'impone, un gravare netto e fermo di qualche magia impolverata che ti aspetta alla dogana del progresso, a voglia a spingere e a forzare il passo, ti schiaccia a suon di mar ionio. Mi ricordo bene le nonne alla domenica delle palme, con stretti fra le ginocchia i nipoti discoli che volevano rincorresi, povere donne, dover battagliare con l'artrosi e col vulcano della giovinezza che voleva sgattaiolare facendosi spazio fra le ossa stanche delle vecchierelle. Le palme intrecciate in chiesa appena colte, palme caparbie e dall'odore erbaceo che s'arrogava il diritto senza licenza di soverchiare il profumo di caffè tostato dei pochi bar sparsi disordinatamente. Mi ricordo bene il tramonto che moriva dietro le montagne, un sole ad acino che colava dagli occhi a grappoli; un vento caldo che sbucava impaziente fuori dalle contrade semideserte. Mi ricordo le notti d'agosto e il mare che per pudore sciabordava piano, il mare che in culo al mondo raggelava i bagnanti di giorno e bolliva di solleone a mezzanotte; rammento lo strascichio del risvolto dei pescatori, e le imprecazioni se la lenza pareva si muovesse e poi era solo il mare che si voleva divertire. Mi ricordo le luci di un locale, come uno scoppio di mille lucciole in fondo al lungomare, e quel brulicare di formichine umane che da lontano pareva un gorgoglio di fontana. Mi ricordo le lune spiaccicate nel celeste cupo delle diciannove e i bambini che nel frattempo s'erano fatti guappi rigavano dalla mia prospettiva il satellite naturale con uno zampettare sulle panchine, se la volevano mangiare quella frittella bianca che domava il cielo scuro-boia, il cielo scuro-mannaia, incombente sulle teste di mezzo universo. Mi ricordo le rondini che garrivano in primavera, strisciando il cielo di vita e come mi sentivo a casa. Mi ricordo le notti d'estate e il ronzìo della cabina della sip da qualche parte che s'era messo in testa d'imitare i grilli delle ventidue. Ricordo un odore di pane promanare e i bambini coi nasi-segugio all'insù a riempirsi i polmoni, allora senza monossido di carbonio avevano una marcia in più. Mi ricordo quando trasgredivano e andavano a giocare sotto il burrone 'chi masculi' e 'tu si figghiola fimmina... chi cazzu fai?' 'Acchiappo i grilli, tra i rovi... ma non li ammazzo mai, li metto nella bottiglia della birra, li faccio frullare sulla giostra e poi li libero, si divertono, sai?' Mi ricordo quando si cominciava a parlare di sesso e se ne scappavano via perché si diventava 'da cattiva compagnia', i baci erano reato, e 'a pagghia pigghia prestu focu'. U focu, dio! Come brillava sfavillando nelle notti di luglio o a capodanno, così il malocchio se ne stava buono in un angolo, del rosso hanno paura i tori e i iellatori; eppure ciò che spaventa ci attizza come una scintilla, in verità i tori sono attratti dal rosso. C'è qualcosa di incompatibile nella legge malferma di alcune cose, che ad ogni modo persiste, come per uno smacco all'impossibile. U focu!!! Bruscia. Eppure è refrigerio se lo domi, se lo sfiori velocemente, tanto che la mandibola si contrae, tanto che dentro al ventre ti solletica piano la vita, è un po' come cadere, la vertigine nello stomaco. La vertigine nello stomaco. La vertigine nello stomaco. Mi ricordo com'era difficile amarsi, come era forte la paura di quello che avrebbero potuto dire, come combattevano il sesso e la castità fino a sciancarsi le ossa, fino alla nevrastenia e poi urlavano ossesse dalle finestre delle case; come ci si nascondeva al mondo, galeotti, ladri d'amore! Svergognati! 'A testa supra 'e spalle'! La vertigine nello stomaco. La vertigine nello stomaco. Ogni rumore soffocato era un demonio che ti mordeva le calcagna. ' Ma chi facisti u basasti? Ora ti rassa, vonnu fimmani seri, va cucina!' Com'era difficile lasciarsi... 'ora chi rinnu a genti! No basasti? Ora ti rassa, vonnu fimmani veri 'nto lettu! Mi ricordo di alcune donne del Sud che sopportavano l'inferno e persino il demonio le riconosceva imbattibili, ammaestravano la lava dell'incomprensione mute, sapevano attendere il momento propizio per esplodere senza farsi notare, eran donne capaci di tessere tele invisibili, di legare al culo di ogni 'masculo seriu' fili da marionetta e veicolarli mute, da vicino al focolare cogli occhi, senza farsi mai scoprire. Il silenzio dell'omissione era l'urlo insopportabile di un immobilismo che spaventava il più temerario. Mi ricordo le carezze buone delle foglie di fico in primavera, e le api sui fiori gialli, le onde truculente del mare settembrino, i moscerini a mazzi sotto i raggi obliqui del sole di marzo; mi ricordo le unghie sporche di terriccio quando si andava a prendere i vermi per pescare, e i girini intontiti dal pane che pensavano mangiassero; mi ricordo la tristezza negli occhi di un pettirosso chiuso trofeo in gabbia dei cacciatori portentosi. Mi ricordo come era bello amarsi, i primi abbracci clandestini sotto al mare e silenzio sennò il mondo ci vede. Mi ricordo la fatica dello star fermi, l'impacciataggine che si tentava di ostentare come nei film per 'quelli più grandi'. Una vertigine nello stomaco. La vertigine nello stomaco. La vertigine nello stomaco. Tanto il mare spazzava via tutto, assieme alle impronte, a qualche legnetto levigato e a dei sandali sfondati incautamente abbandonati qualche anno prima. Mi ricordo che pensare alterando tutto con l'ottica del lontano, fa sì che non riesca a scindere il giusto dallo sbagliato, ma è solo un'unica commistione di vita che scoppia in una vertigine nello stomaco. Sempre la stessa. Mi ricordo come la vita ha disintegrato i sogni che ci raccontavamo sotto gli ulivi in primavera, rendendo tutto ciclico e banale. Mi ricordo di una bambina nata sola, ma erano in due, il fratello s'arrese prima: è quello che lei ha fatto credere al mondo. La vertigine nello stomaco, sempre quella. Il mondo non lo sa che suo fratello se lo porta dentro, Francesco... glielo vuoi dire tu a quest'universo di disingannati che Dio c'ha il sorriso di Tom Waits, le rughe corrucciate e sagge di Montale, l'umorismo di Guzzanti e che a diciassette anni ancora io e te dribblavamo pallonetti. Fratello, la scrittura in un modo o nell'altro ci congiunge, è attraverso lei che ti raccontavo a dodici anni di come avevo paura del kraken fuori dalla finestra, mentre invece erano solo le foglie della palma smosse dal vento e proiettate sul cemento in muratura dei vicini a creare quell'ologramma, ma sai... ho mentito, non avevo paura allora, perché sapevo che m'avresti protetta. Volevo solo farti sentire il mio baluardo salvifico al terrore del mondo là fuori. Fratello, la penna e l'inchiostro sono una vertigine allo stomaco, sempre la stessa ma migliore perché è la strada per raggiungerti. Con Amore.
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