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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 26 Luglio 2013
- Visite: 1791
'Stavo bene perché avevo imparato a non fasciarmi la testa prima di rompermela. L'ansia me la lasciavo alle spalle, i tormenti sotto le scarpe, le conseguenze dietro l'angolo, ma finché un sole avesse illuminato una qualsiasi delle mie mattine, avrei continuato a vivere col sorriso sulla bocca per dispetto, per disprezzo, per terrore.
Avevo lasciato per troppo tempo che si cumulassero gli errori, li avevo lasciati ingigantire dentro di me con un senso perverso di rovina, che mi invitava subdolamente ad accrescerlo, l'alternativa era vivere come un cane braccato, come uno sciancato sotto un ponte, vivere col fiato sul collo e il presagio del crollo, ma sarebbe stata una scelta logica, che mi avrebbe sottratto energia fino a ridurmi vegetale inerme, così rimanevo perfettamente impassibile nel mio nichilismo fumigoso e putrido, ci affondavo dolcemente come avvinghiato in una sabbia mobile, volevo affondarci, dovevo affondarci nell'indistinto lasciarsi andare. Stavo bene perché vivevo del frammento, dell'attimo, mai dell'intero. Avevo imparato ad accettarmi, a riconoscere che in me esistevano la pietà e la rabbia furente, scusandomi coll'attenuante fantasiosa ma non troppo certa che anche una delle tre teste di Cerbero doveva essere buona, ché i contrasti esistono, perché siamo umani, ma pur sempre animali. Stavo bene nello stadio proto delle cose, mi rannicchiavo nella nicchia di ciò che ancora doveva compiersi, ecco perché avevo scelto che l'inadempienza mi transitasse accanto, l'avevo fatta prolungamento del corpo mio, ma senza impegno accade naturalmente così come si respira. Le ansie che cos'erano se non un esubero di un'emozione? la sua stessa esplosione, maledizione! La maturità esasperata di un sentimento che deve uscire per farsi azione. Ero divenuto imperturbabile, sì! Questo è il termine giusto. A furia di affondare troppo nell'anima delle cose e della gente, fino a sentire le loro ossa, le loro rogne, il loro sporco, la loro sporcizia vitale entrare nel mio sangue, e partecipando di questo macabro silenzio da baccanale, ora preferivo galleggiare in superficie, con un piede solo! Che c'è di male nel voler sopravvivere? Provavo a scrollarmi di dosso i dolori abbaiando e latrando, mordendo, e nel mentre si lacerava qualche cosa dentro, provavo a recuperare chi aveva scelto d'allontanarsi e finivo con lo smarrirmi io stesso. Non ho perso la sensibilità e il senso di correttezza che mi sento gravare leggermente sul groppone, l'ho solo dosato per non farmi affossare. Ho le bestie nere che mi aggrovigliano le budella, la notte mi svegliano fameliche, sudo, piango, non mi ricordo chi sono, ma mi trattengo, voglio dominarla l'emozione non esserne succube, voglio rimanere fermo quando dentro di me si agitano le tempeste dei marosi della vita, voglio attendere che i miei peccati si prendano la rivincita, e l'avranno, forse l'hanno già avuta: non si è mai assolti dal tribunale della propria coscienza, soprattutto quando l'inquisitore è il tuo Io, ma ho imparato a difendermi anche da lui rimanendo immoto, lasciandolo blaterare in sordina... e forse mi illudo, perché in fin dei conti sono 'steso' quindi morto dentro. La morte da vivi, il quietismo dei sensi, terribilmente sadico.' Così farneticò l'uomo dietro di me nel bus, non mi girai a scrutare quel volto a cui cercai di affibbiare un viso che potesse coincidere con quelle parole, non potevo interrompere la sua confessione intromettendomi, notai solo riflessi i suoi occhi iniettati di sangue nella lastra del finestrino, e mi bastò per capire che l'interlocutore cui confessava tutto non era altro che egli stesso.
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