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Era il tempo delle streghe arse sul rogo, dei diavoli con facce grottesche sotto i letti che cullavano il sonno dei giusti, fu il tempo dei satiri dal piede caprino, dei dannati colpevoli di perversione, vi fu il giorno dei ribelli armati di fiori, e degli innamorati sotto le balconate delle dame prosperose a decantar nenie, ci fu il giorno delle tarante e delle isteriche che si caricavano a suon di musica, ci furono molte ere e giorni secchi o uggiosi, molti lo decantavo, altri componevano, talaltri lo trasfiguravano in sembianze demoniache e volgari, il mal di vivere ci ha sempre perseguitati, gli Aedi ne hanno cantato a loro modo, molti suicidi lo hanno lasciato vincere, i pazzi ammattiti si sono protetti nella loro coltre rosa e sorridente di niente.

Li ho visti tutti, mi hanno attraversato la carne e l'anima, ho letto di loro, ne ho sentito gli urli, ho scrutato le loro smorfie di dolore insoddisfatto, ho pregato il Dio degli umili con la speranza ormai porta di una pace che non c'è. E' un inno al dolore silenzioso che ci attanaglia dalla notte dei tempi, è una preghiera forse infernale, laica o castamente religiosa: ce n'è per tutti, perché l'indispensabile è ognuno, è ogni cosa, anche lo stesso male, lo stesso dolore ci è indispensabile ed è una pedina che ci completa. Le puttane piangono agli angoli della strade ma la gente non lo vede, gli ubriachi si corrodono il fegato e il senso delle cose in cambio dell'oblio premorte, ma la gente sente solo l'odore nauseabondo della decomposizione, ci siamo pervertiti dietro la tecnologia, ma diciamo che ci siamo evoluti, ci sbraitiamo contro come nemici e assassini ma non serve a niente rendersene conto, non sappiamo cambiare. Noi non sappiamo cambiare, ci piace perseverare e compiangerci: è un senso eroico finto che ci veicola, urliamo al complottismo, strilliamo di divinità solo perché la nostra struttura mentale non è adatta a comprendere il facile di alcune cose. Diciamo di amare ma non abbiamo il coraggio né la forza di mantenerlo, grondiamo incomunicabilità e allora ci rincantucciamo nell'indistinto della letteratura, diventiamo forestieri della vita assieme a Pirandello e poi Hervé Joncour, 'la pioggia Hervé, guardarla, è come essere spettatore impotente della vita degli altri senza poter partecipare, segregati come siamo nell'eterno reliquiario del Ragionier Montale, solo i libri ci donano per ammortizzare il senso di impotenza la cognizione di essere niente, e per dargli forma a questo fratello-niente dobbiamo solo scrivere e guardare, dire, narrare, l'unica cosa certa del resto è che 'In principio era la Parola...'