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'Mi chiamo Ector, sono un uomo solo. Per 'solo' non intendo il fatto di essere numericamente desolato. La gente mi assiepa, mi circonda, mi sputa in faccia il loro fumo di sigaretta, mi gracchia di fronte, mi urla dietro, ma sono solo un miraggio.

Mi chiamo Ector e vivo la mia vita rischiando, ho visto morire molti soli dietro montagne zigzagate con in mano una birra dalla bottiglia unta, e lo stereo a palla che suonava i Pink Floyd. Mi piacciono le cose semplici, e osservo spesso al mattino mentre apro le persiane le pagliuzze di polvere che danzano sotto gli ancora flebili raggi di sole, sarà che sono solo. Chi non lo è? Credo poco alla durata delle cose, è tutto una immensa e vertiginosa illusione e rendersene conto non è vigliaccheria. Mi chiamo Ector e non racconterò di avere i capelli biondi e un fratello disperso per il mondo, un cane di nome Smith, né che mi piace fare l'amore in macchina col buio appiccicato addosso assieme al sudore della mia lei di turno. E' tutto una grande illusione, racconterò invece che mi affascina l'odore della benzina, quando verso l'alba disfatto dalle serate cogli amici vado al self service e nel cuore della notte quella promana, racconterò che i miei agosto brulicano di fuochi di falò e panino e mortadella in riva al mare-pece sciabordante, racconterò che mi sono innamorato tante volte quanto basta, quanto basta per capire che ogni cosa ha una fine, che ogni cosa di umano ha una fine anche se la sensazione interminabile della speranza ci dice di no, e allora forse ci siamo inventati che esiste Dio, ci siamo inventati che esiste Dio e forse esiste a prescindere anche se non c'è, perché il cuore della gente lo custodisce comunque, racconterò che anche l'inesistente occupa il posto che gli è dovuto, perché niente è più presente e inossidabile del vuoto. Le ansie mi perseguitano perché sono uno scavezzacollo che delle regole ne ha un po' piene le scatole, ho provato ad educarmi, a elargire al mio cervello strade di buoni propositi da battere, ma è troppo difficile, allora mi acquieto e mi lascio andare a me stesso, trovo così il nido della mia libertà. Mi chiamo Ector e se racconto della vita di Sud piango e mi sento spaesato, perché in città si smarriscono gli odori, e gli uccelli non mi svegliano più, se racconto del Sud rivivo perché sembra che quella Terra fangosa e sfrutata a maggese ci assembli le ossa e le carni, ma è una banalità che potrei risparmiarmi, invece ve lo dico. Mi chiamo Ector e scrivo dal balcone di una bellissima città sferzata dalla pioggia, dalla pioggia ad agosto, senza falò: i palazzoni si ergono silenziosi e imponenti come imperatori possenti, sprezzanti; il fulgore delle loro luci mi ricorda quello delle lucciole a maggio, sempre a Sud. Sono miope e la gente la vedo sfocatamente, così per sicurezza sorrido anche quando mi fanno un ghigno e non distinguo, a me pare sempre un sorriso, sorrido sempre come lo scemo del villaggio, lo zimbello peggiore. Mi tradiscono e rido sguaiatamente, che altro posso fare? Non è arrendevolezza è consapevolezza che la ruota ha girato, ha girato per me, è il mio turno, occorre rispettare le scadenze colla vita, fai spallucce e accetti le spallate. Mi chiamo Ector e ho molti posti cari, sono luoghi che quando ero innamorato hanno visto la complicità che mi legava maniacalmente alla persona, ricordo che a ritornarci il cuore mi spaccava in patto e che sognante rivivevo ogni dettaglio, ogni attimo, facevo ritornare il passato da un'altra dimensione apposta per me, apposta per noi, adesso mi piace ritornarci con la sensazione che non ci sia più niente che mi attende, che tutte quelle panchine e strade e lungomari non sono più pregne di sensazioni, così mi coglie un senso di vuoto a fare un confronto con l'emozione surreale che mi scatenavano un tempo, devo dire che nonostante il senso di fastidio è una cosa che mi piace, è come toccare con mano la fine tagliente di tutto, è rendersene conto, abbracciare lo svolgimento definitivo di ciò che mi prima era in atto. Mi chiamo Ector e non dirò che questa sera alle quasi tre del mattino sorseggio un 'Bicerin' al cioccolato e fumo pensando al passato. Oramai non fa più male niente, non fa più male niente tranne il futuro e la paura che sono un inadempiente. Mi piace addormentarmi abbracciato al cuscino, oppure in forma embrionale, sognare di tutto e non rammentare nulla, a dirmi delle elucubrazioni oniriche solo il retrogusto confuso dei pensieri che si svegliano dopo di me. I sedici anni sono stati i più belli, la prima volta che t'inflippi di qualcuno credi sia per sempre, lo credi con una convinzione ammirevole, che a immaginarti senza preferiresti tirare le cuoia, forse che la vita è un 'sempre meno', già la seconda volta che t'accade tieni in considerazione il fatto che possa finire, così: meno passione, meno investimento di sentimenti, meno foga, alla terza è un innamoramento quieto e dosato o forse non è vero, mi ricordo solo vagamente. Mi chiamo Ector e scrivo di me non per egocentrismo, per introspezione e forse perché sono  l'essere che conosco di meno.