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Era nuda, al quinto piano dello stabile, senza occhi indiscreti, senza rumori cittadini che la importunassero. Il ronzio soltanto, soffocato di qualche motocicletta distante pareva mare agitato, ma le onde erano adesso molto lontane.

Scriveva, in solitudine, aveva imparato a scrivere per non morire, per gettare fuori la lordura della delusione, dell'incertezza, del groviglio in testa. Gli scrittori lo sanno che non si scrive per vezzo, è più facile che si scriva per sopravvivenza interiore. Lei doveva partorire vita e mentre questo avveniva si dissanguava di giovinezza e gioia. Era nuda, al quinto piano dello stabile, senza occhi indiscreti, settembre si approssimava, le bruciava la pelle il primo venticello d'autunno maturo. Settembre era una maledizione, troppi ricordi: le foglie nei viali che mulinavano col vento, rumore di voci familiari, abitudini incrollabili, qualcuno che contava su di lei, qualcuno che contava su di lei, qualcuno che contava su di lei, qualcuno per cui adesso lei non contava più niente; quelli che rimanevano li aveva cacciati perché voleva tagliare i fili che la legavano a un mondo che doveva abbandonare, un bozzo che la conteneva e non la mollava, doveva andarsene, doveva lasciare ogni cosa, ogni cosa, non doveva avere fili spessi col passato o il passato si palesava in presente e non le faceva vivere la dimensione giusta, si sovrapponevano vite troppo ineguali per coesistere in una unica anima. Lo smog arancione spegneva la visione del cielo incontaminato di anni prima, si lasciava contagiare come un'ammorbata, doveva vincere la sensazione di vuoto e di dolore a cui si affeziona ogni malato terminale perché non ricorda come si campa accompagnati dall'alone della felicità, allora ci si accontenta di perire piano. Qualche volta intraprendiamo scelte sbagliate, scelte d'istinto, scelte sadiche, scelte distruttive ma non siamo noi, siamo lo sfogo che per tanto tempo si è ingrandito dentro di noi e che non abbiamo avuto il coraggio di disbrogliare un po' per volta e allora straripiamo feriti e dobbiamo ferire, travolgere, la prima cosa che ci si para di fronte è il bersaglio, non ci controlliamo più, non ci riconosciamo più, anche se subito dopo ci sputeremmo in faccia. Il demone della perversità, direbbe Poe. Direbbe bene. Il male non è all'inferno, ce lo abbiamo appiccicato in culo tutti quanti e nessuno fu più santo. Santi non ce ne sono, ma siamo tutti maledettamente uguali, il sapersi conoscere è soltanto questione di tempo perso a cercarsi dentro un'introspezione labirintica e mai fornitrice di risposte. Le cattive azioni, le scelte suicide a occhi chiusi si scontano così piano, che ammazzarsi a volte sembrerebbe l'unico rimedio, ma lei era codarda e allora temporeggiava finché la fiammella si sarebbe spenta da sola. Occorreva cambiare. C'erano alcuni piccoli obiettivi che doveva raggiungere, che doveva afferrare, avrebbe poi avuto il controllo sui suoi scatti ferini e insensati, sarebbe guarita, avrebbe smesso di devastare le cose belle. Bisognerebbe sezionare la cattiveria e porre lei un'attenuante quando questa nasce da troppo dolore e non dalla voglia deliberata di procurare dolore. Lei doveva disabbigliarsi dall'angoscia, una volta per tutte, doveva fare pace con la calma, doveva compromettersi con l'ordine, ristabilirlo, doveva congedarsi dal caos e dal relativismo o la strada che avrebbe imboccato sarebbe sempre stata sterile e infertile. Adesso era ora di piantarla di inglobare, era ora di crescere, di riporre un po' la penna e l'inchiostro-creatore, adesso doveva curarsi delle sue creature cui aveva dato una vita, per quanto frammentaria su quei fogli, doveva imparare a farsi bastare i contorni delineati e piantarla di amoreggiare con l'infinito e gli stadi proto, adesso doveva essere qualcuno, non una miriade di personalità smozzicate e duttili, indistinte e camaleontiche. Non importava più che 'conoscersi è morire', anche ripudiarsi è abnegazione, è uccidersi, è codardia, è l'abbandono dell'io. Doveva spegnere i sogni edulcoranti e concentrarsi sulla realtà, sugli studi, doveva fare carriera, doveva circondarsi di vite stabili, doveva smetterla di lambiccarsi il cervello per tentare di cementare i 'sé' e i 'ma'. Nessuno stato d'animo alla Virginia Woolf, doveva liberarsi dell'immedesimazione maniacale con le anime tristi, doveva solo sorridere al sole, andare a correre al verde, doveva riporre quella cazzo di penna e delineare i contorni di ciò che aveva impresso col sangue, doveva dire addio a molte cose, doveva farlo o sarebbe rimasta intrappolata in un rimpianto di non vita. Al quinto piano la luna si era nascosta chissà dove, settembre si avvicinava inesorabilmente e lei avrebbe chiuso la mente all'odore pungente ma delicato del primo freddo, alla rammemorazione del mare arrabbiato e cupo, non avrebbe notato le giornate più corte né i vialoni traboccanti di foglie che si rincorrevano o imputridivano fra le pozzanghere, men che meno le nubi più spesse e minacciose del solito, neppure i primi giubbotti jeans dei passanti, nulla... settembre si approssimava e conduceva ad una estate adulta non più infante, una di quelle estati dove non si nota più niente. Sapeva bene che per diventare scrittori non è necessario né basilare seguire consigli tecnici, si nasce colla peste bubbonica del dover dire, si interiorizza l'inesistente pur di rendere qualche sogno sgualcito a un mondo che se ne fotte, ma adesso doveva riporre quella maledetta penna, o la sua vita sarebbe finita, già non distingueva più nettamente il consistente bordo della realtà dal fumante e spettrale senso di vuoto. I sogni erano andati in malora, puzzavano di vertigine e capogiri. Avrebbe fumato la sua ultima sigaretta Ginevra, poi sarebbe cresciuta. -Di Chiara Nirta;