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L'ho sentito arrivare come arriva fulmineamente un uragano. Senza preavviso, subitamente mi gambizza, una mannaia incuneata nell'epiglottide mi affetta il respiro, lo amputa, un'ispirazione superficiale che non ossigena ma si minimizza

assottigliandosi circa lo stesso spessore di una patina opaca, incapace di trivellare il sangue lo annichilisce, opacizza i globuli rossi e il corpo ne risente spossato, stremato, scarso d'areazione. Sento gli occhi farsi piccoli ed il volto emaciato, scarno e smunto. I bulbi oculari li percepisco sporgersi fuori dalle orbite sgranati e dolenti, come se qualcuno mi sbuzzasse gli iridi. M'accascio e annaspo col volto guastato da un dolore che non ha nome, a cui nessuno ha dato mai definizione, una tristezza senza matrice né fattore scatenante. La fronte corrugata appare  poco più d'un mosaico confuso, i tratti somatici si intersecano, le rughe s'attorcigliano, le lacrime si aggrovigliano sulle gote e solcano, roventi come fuoco fatuo. E' un attimo senza respiro, è un attimo in cui la vera essenza delle cose pare svellersi e sradicarsi dalla materia in sé, per compiersi in una visione vacua e vaporea, foderata, che sembra appannare  interamente l'ambiente circostante abbacinante di luce, una luce sfuocata e fumigosa, è tutto avvolto da coltri, esuberi di luce, poi di colpo la tenebra che annotta sui miei sensi. Inopinatamente il buio recalcitra e dopo il riflesso d'abbassamento della palpebra si rende manifesto e mulinella e turbina, rotea sulle superfici, il mal di vivere. Sento le meningi implodere, pulsare, le tasto coi polpastrelli percependone l'ispessimento. Sono sola, sola, assolata, derelitta. Eppure coloro che m' amano non m'abbandonano mai, malgrado l'affetto loro s'assiepi accerchiandomi io son sola nell'animo. Son girovaga nel cuore. Son errabonda nell'amima. Nessuno che mi costeggi né che mi fiancheggi dentro le piaghe di dolore, nessuno che mi baci le abrasioni utopiche, nessuno che mi protegga dal "Drago di fuoco": dall'attacco di panico. "All'attacco" urla la Paura incitando, sghignazzante e con in testa le serpi di Medusa a dar manforte, mentre  la Bastiglia da espugnare  non sono null'altro che io. Ma le mie difiese immunitarie in marcia non rispondono al contrattacco, arrancano svogliate e si lasciano sbaragliare, hanno ragion d'essere nell'inerzia. Così la mia solitudine si corrobora e si consolida, divengo impermeabile al mondo degli umani. Coartata e costretta in una bolla etera esangue di dolore osservo il mondo evolversi, espandersi e incespicare ed ancora ritualmente riprendere a susseguirsi. Intravedo i passanti sorridere e sveltire l'andatura per acciuffare il tram sul ciglio del secondo, odo i loro schiamazzi che m'arrivano per vie traverse, recepisco tutto a tratti come se mi trovassi in un luogo insonorizzato e imperscrutabile, che non soltanto mi inibisce il contatto sensoriale con l'umano , ma che ulteriormente amplifica ed esacerba ogni percezione, ogni bollicina fervente-alchemica o interconnessione psichica.  Un rimombo da cavea volteggia in testa. Io esisto in una sorta di compartimento stagno parallelo e nessuno sente gli strilli, i lacerii di dolore, men che meno alcuno che mi tenda una mano, un dito, un polpastrello. Il tramestio che fuoriesce dalle labbra quando mi viene amputato il respiro in gola da quella mannaia, trabocca e s'estende in un farfugliare che increspa ogni piega interna, in ogni antro, nel meandro più recondinto ed impenetrabile in cui il marcio mi corrode, il sangue si raggruma mentre imputridisce divenendo latrina, lì si intingono i miei dolori, lì fecondano ubertosamente le insicurezze, proliferano e m'avariano. I miei strilli sono muti e non alterano la sonorizzazione esterna limitatamente, infrangono la mia anima invece, la tolleranza al male, assottigliano l'indipendenza dall'Amore, lesionano e deteriorano l'autonomia del mio vivere autoctono, scheggiano e minano le fondamenta con cui radico al suolo, seppur sempre novello e perpetuamente sfaldato. Sono apolide, senz'albero, un frutto amorfo. Ramificazioni e diramazioni che si protendono versono ogni dove e non giungono da nessuna parte. Scruto solo il mondo arrovellarsi e sbrogliarsi, il suo andirivieni ora diversificato ora onnipresente e medesimo, tento di scorgere sempre, ma cosa? Non si palesa sempre una pellicola ritrita in fin dei conti? Ciononostante ho sempre guadato oltre, e fu lì che li vidi, i tuoi polsi. Non saprei illustarti esattamente come accadde, li avevo avuto spesso dirimpetto agli occhi, ma mi limitavo meramente a osservare, non a vedere: ero ancora cieca. Poi un giorno, uno qualsiasi, di quelli che contengono il solito sole ed il solito cozzare di vite, il solito scontrarsi e scambiarsi le esistenze: quei polsi si rivelarono a  me: il disvelamento ebbe luogo, esattamente come un'epifania fulminea e lampante. Da lì percorsi con lo sguardo ogni singolo brandello della tua persona: Passai in rassegna gli occhi, vivaci e tanto e per una strana simbiosi tristi e poi inaspettatamente vispi e profondi. Le mani perfettamente proporzionate, singolari e affusolate, esperte ed espressive. Le braccia e la villosità che si diradava in fretta sul braccio sinistro, come se fosse un galeotto intento a sfuggire  al nemico, si dissipava repentinamente, sapevi che avevo notato perché sorridevi trasversalmente. Le unghie mai eccessivamente rotonde, mezzo quadrate sottostanti la sporgenza carnale delle dita, non s'affacciano mai oltre, non s'arrischiano nel mondo che non c'è, neppure le unghie, situate al sicuro, entro il "Limen" della carne. Fu lì che ti conobbi e ti rapii. Ti stuprai il cuore e come refurtiva intoccabile-appetibile tentai di celarlo, senza mai esito in verità, né verdetto. Non si estirpava, anche se una piccola scheggia riuscì a fagocitarla. "Per i più" seguendo il luogo comune de "l'Amore quello buono" ritengono fermamente che il Sentimento Propulsore si releghi e si circoscriva a quello convezionale, contraccambiato, fisico e tangibile. Io ho contrapposto il Tuo, così impalpabile, così incorporeo così distante secoli e scaglie d'asfalto, nembi e condizionali. Così remoto e inabissato che per procedere anche a tentoni si rischia d'arrivarci con un invertimento d'ossa. Ma io godo di una buona penetrabilità, soprattutto per quanto ti concerne. Tu sei l'Amore che contrappongo alle insulse marionette che transitano nel mio vissuto ed anelano un "Ti amo" che gli è proferito insensatamente, meccanicamente perché la convenzione lo impone, per arginare il loro (ed il mio) dolore, per convincersi che sia un investimento sentimentale che valga la pena incrementare ed incentivare. Ma è un velo illusorio, una nube fittizia che al primo vento viene spazzata comprensivamente del suo pulviscolo roteante. Senza aggiustamenti, senza tentativi, senza agognare, quegli intendimenti speranzosi di colmare un vuoto vengono annientati da una raffica più grintosa. Mentre tu ti preservi perennemente integro in me, incastonato seppur assente nell'epicentro della gioia, più reale dei puntini che s'accalcano intorno al mio compartimento stagno di vita. Tu hai penetrato l'impermeabilità che mi relega nell'hortus conclusus e che mi impedisce di salpare. Tu che sei stato l'oltraggio alla negazione psicologica e ti sei compiuto e risolto in materia nonostante la mancanza corporea e facciale, tu che hai deteriorato l'impenetrabilità che mi rende esule e ti sei addentrato, con un riguardo particolare in punta di piedi e sommessamente, scosquassandomi ed escoriandomi i labili tendini... Ma io all'interno della mia umida ombra remota ti Ricordo, io rammemoro di te, rievoco quella foga che mi sugge tutta la linfa rimpiazzandosi imperiosamente al suo posto. Non credo si possa Amare oltre questo stato di follia. Dimmi, è forse Amore desiderare di baciare gli occhi di un uomo e figurarsi intimamente di sorbirne il dolore? E' forse Amore salvaguardare un'assenza e sentirsela seguitare di pari passo? E' forse Amore conservare  compulsivamente il tratto di un volto e imprimerselo nel cuore? E' forse un Amore, quel tumultuare che smuove all'interno in una sorta di negazione psicologica, che s'accalca  post sottopelle,  suppurando nei pori? E' forse Amore scrutare il passante ed auspicare che il fortuito fato sbeffeggiante e schernente possa teletrasportarti metafisicamente innanzi a me? E' Amore dimmi oh tu, osservare la città e le gocce di pioggia punteggianti parabbrezza ed immaginare di disfarsi in quelle stesse, di traslarsi in acqua, in vapore poi e cavalcare le nubi sino alla tua ubicazione soltanto per poterti umettare una gota? Non è Amore il tremore? E il biascichio che ne consegue? Il consecutivo ticchettare netto del cuore che analogamente a quello dell'orologio depreda di attimi, arde le calorie e annienta sempre l'acume d'un briciolo di ragione? O sapessi, quei vuoti dettati da mancanza, che a sprazzi ho potuto colmare visionandoti suppur a metà, e sapessi quanto la mia vita si sia sentita vivere, quanto le viscere contorcersi e contrarsi come un groviglio di serpi. Ma ci pensi mai? Anche uno solamente dei tuoi odori è bene supremo, sa di casa, sa d'addio e rinconciliazione, di trascosso corroso, di bilico. Ho amato persino le asole delle tue camice, luoghi in cui ho visto il tuo volto stagliarsi e profilarsi, le tue barbe incolte, i toni della voce alterati dall'ira o dall'ilarità, gli occhi cangianti contro sole. Quante espressioni somatiche potrei enumerare, quanti sogni m'importuni. Quante notti t'abbraccio e non lo sai. Quanto prego e scongiuro per il tuo transitare: che ti sia gaudioso e rettilieneo, che ti sia lineare e mai brullo ma sempre ferace e vivido. Scappa in me a tratti, fuggi, infinitati se vuoi sentirlo tamburellare nuovamente e di novella irrorazione, il cuore.