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A diciassette anni lo dici, lo dici con odio e quasi la bava alla bocca che penzola dalla rabbia, un cane rabbioso che abbaia a se stesso: "eu da Calabria mi ndi vaiu"! A diciassette anni che ne sai? Vedi solo il peggio. Il peggio della Calabria e dei calabresi. Il peggio che siamo capaci di fare alla nostra Terra e a noi stessi, quando non la e non ci valorizziamo. E tutto intorno gli occhi di un ragazzo che nell'età dell'adolescenza è colmo di ribellione di scosse d'assestamento curiose e violente che andranno a formare la sua personalità, vedono solo quel peggio soffocante: Mentalità provinciali andate a male, strafottenza verso il territorio, mare e battigie deturpati e spiagge lasciate al nulla, spazzatura ovunque mentre i comuni si girano i pollici e i futuri candidati sindaci si impegnano a promettere "soppressate" in cambio di voti, o all'estremo del piacere 'na pancetta! "Ah, la pancetta! Ti vo-ti-amo!"; la voglia di cultura e di scoprire arpionata, catturata e sacrificata al conservatorismo di luoghi che non si vogliono evolvere, che rimangono affossati secoli come per un'analogia tragicomica ai Bronzi prima del rinvenimento, allora ti arrabbi, ti maledici urlando abbandono al tutto intorno che t'ha cresciuto (ché poi è certa gente che non vuole evolversi, cosa c'entrano i luoghi? Ma noi calabresi abbiamo nel cervello il ragionamento-metinòmia, scambiamo il contenente per il contenuto (la Terra con noi stessi (i colpevoli), penalizzando a scaricabarile le azioni altrui, e noialtri: "evvivaddio", siamo perfetti), il tutto intorno si fotta! "Eu da Calabria mi ndi vaiu", lo dici, l'ho detto a diciassette anni, che ne sapevo della bestemmia mastodontica che andavo pronunciando? A quasi trenta gli occhi poi li apri, io li ho aperti, lo capisci solo quando te ne vai, soloquandotenevai! Io ho capito. Non si tratta di razza, o di un elogio, di vittimismo e neppure di qualunquismo, questo occorre premetterlo, perché c'è sempre qualcuno che s'attacca a cavilli inesistenti scovando un marcio che non c'è all'interno delle parole, non c'è eppure si disinteressano del buono e vanno a caccia di quello, si tratta solo di un bilancio, nel bene e nel male di ciò che la mia sensibilità ha acquisito, con tutta la probabilità dell'errore, non è vero che i calabresi se ne fregano, che la Calabria è tutto quel dire cattivo che l'assembla nella bocca di ominicchi che vorrebbero disintegrarla, la Calabria è "Il paradiso in terra, dice che il diavolo voleva rovinarla perché era geloso e invidioso", così narrava un signore che ho incontrato, o per dir meglio ascoltato sui treni che battono la ionica a passolentoemalandato, biascicando sulle casette bianche, che sembrano appoggiate al mare, al cielo che su ci galleggia limpido pure a febbraio. La Calabria è costeggiata da spiagge greche, che sono state normanne,ma anche bizantine, che sono state albanesi, latine. E' fatta di nonne che sussurrano storielle che paiono inventate all'ultimo minuto, nella velocità intensa d' un lapillo-galeotto che sfugge alla lingua di fuoco ardente dentro il caminetto e invece sono modificazioni di credenze romane, di dèi caprini, che aiutavano il raccolto a fecondarsi e imbizzarrivano le donne, le facevano diventare licenziose e "spostate", irrobustivano i petti villosi degli uomini che andavano a caccia per fame e non per vezzo, e forse questi pagani signori che la cristianità ha soppresso con la stessa repentinità con cui vengono soppressi i treni sulla ionica, avevano nome Pan! E i bambini ascoltano, mangiano pane e olio col viso rosso del fuoco che scorre caldo sulle guance e nelle vene, nelle vene, nelle vene, il fuoco rosso come un solleone che azzanna, ascoltando ciò che è stato senza saperlo, invocano la fantasia dei vecchi, che non mentono invece, illustrano quello che è accaduto e che da in bocca in bocca si è via via modificato, e colorito delle sfumature personali dell'enfasi di chi narra, ma è accaduto. La Calabria è coalizzazione, da noi credo "cadi unu e si ciunca l'attru", da noi uno cade e l'altro prova dolore, siamo un unico corpo, composto da distinte parti, ma unico, e ci aiutiamo senza riserve, ma non per religioni necessariamente predicanti, ma perché molti venivano dalla fame e sapevano cosa significa un pezzo di pane duro quando sotto i denti potresti mettere solo pietre fredde. Noi abbiamo un'intelligenza contemplativa, da buoni greci, un'intelligenza poetica e traduttrice ma siamo negati per la praticità, è la nostra condanna. Nelle terre di Nord, tutto il contrario, sono molto pratici e svelti, anche se c'è meno dell'intelligenza che ci caratterizza. (Nessun fazionismo, a te che vuoi trovare il marcio: io amo tutte le terre, descrivo, narro senza cattiveria, se vedi male è perché ti gronda dagli occhi e lo rifletti per inerzia qui). Tutte le intelligenze occorrono, ma il vacante di praticità unito a un buon misto di strafottenza non fanno crescere la nostra regione. Noi abbiamo avuto il paradiso e lo abbiamo lasciato ai diavoli, abbiamo peccato e la "Cacciata dal Paradiso" per un Calabrese è l'emigrazione. Ce ne andiamo a diciassette anni non capendo il bello e vedendo solo l'orrore. Io me li ricordo i tamburellesti che fino all'alba con le mani sanguinanti dalle lame dei piattelli laterali continuavano la tarantella, mi ricordo chi si ricorda delle San Paolare, dei capretti scannati a Polsi, del vino traboccante nei bicchieri, l'odore d'ottobre che era mosto pressato nel torchio, l'odore di giugno che era suono come rondini e sensazione come bruciore di pelle al sole, ronzio d'api e labbra al gusto di salsedine, mi ricordo delle strade che alla sera s'aprono sotto un cielo glabro da nuvole e se nuvole ci dovevano essere, erano pennellate da Dio in persona. Un calabrese che emigra è un calabrese morto, ma non lo sa finché non va via, perché pensa di trovare l'America. Io spero che la Calabria si evolva, ma non come la città, l'essere umano è perverso. Ha fatto delle case e delle dimore immensi palazzoni-gabbia che sono alveari tristi, e la natura muore intirizzita dallo smog ai margini, il cemento s'inghiotte i fiori e spegne i colori, il sole s'offusca di fumi cancerogeni assieme ai polmoni e i mari diventano inchiostro di morte, non di vita, un inchiostro che scrive di morie col suo stesso veleno e racconta avvenendo, la fine. Allora diventiamo frenetici e tristi senza sole, la droga ci pare adrenalina giusta, e invece è un'esalazione di disperazione, la mancanza di sole e calma, di pace che si dischiude nel verde di un albero, non è stricnina. La sensazione di benessere proveniente dal silenzio privo di rumori molesti di mezzi laceranti la cerchiamo nel fracasso insensato delle discoteche, nei bagni d'alcol. La città è bellissima, ma gronda di soluzioni peggiori ai problemi stessi che ci siamo autocreati. Ammazziamo atrocemente gli altri esseri, senza renderci conto che la vita abbraccia egualmente l'esistenza pulce con lo stesso criterio con cui culla quella dell'animale disumano che annovera la nostra razza, ma difronte alla morte non ci sono dimensioni. Allora alienati creiamo sovrastruttura che ci inaridisce intelletto e sentimenti, diventiamo quello che costruiamo: mezzi, robot! Siamo morti dentro. Io non voglio che la Calabria s'evolva, o meglio voglio che s'evolva ma non come le città, voglio che s'evolva naturalmente con la valorizzazione del verde, del mare, delle tradizioni, della legalità, il cielo da noi grigio non lo voglio proprio! "Eu da Calabria me ndi vaiu", premessa di una condanna a morte! di Chiara Nirta