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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 28 Agosto 2014
- Visite: 2050
Sapevo che dentro di me era tutto cambiato. Cambiato così velocemente che davanti allo specchio non avevo avuto il tempo di riconoscermi nel bozzo maturo che ero adesso. Maturo e sbocciante verso il nulla. La mia sensibilità si era irrigidita. I sentimenti si erano atrofizzati e ogni posto valeva esattamente un altro. Reazioni come il pianto avevano solo il sapore del vomito e la disillusione tingeva di grigio anche il rosso fuoco che un tempo mi eccitava aizzandomi alla brace al pari dei tori e degli indemoniati. Avevo vissuto tutto il vivibile in pochi giorni. Le emozioni si erano messe a giocare ad acchiappino, rincorrendosi e trapassandomi così velocemente da non farsi riconoscere in viso. Mi avevano spezzato il cuore quelli di cui mi fidavo. Mi avevano sputato in faccia tutta la fiducia che avevo riposto. Io avevo tradito me stessa più volte e barattato i miei valori per la troppa voglia di accumulare errori in fretta. Come se l'esperienza dipendesse dalle falle che si aprivano nella mia vita, dalle crepe che come arabeschi affioravano nella mia testa. Ero diventata una bestia diffidente. Avevo tagliato i ponti con tutto quello che mi circondava e a pagare le conseguenze, come al solito erano le poche cose belle cha ancora mi distinguevano da una bestia istintiva e cieca. Avevo nelle dita vibrazione da pianoforte, ma la mia sinfonia rimanevano le parole. Erano arrivata ad odiare tutte le presenze che gravitavano o che avevano gravitato all'interno della mia vita. Come se l'amore fosse un'anteprima acerba dell'odio. Sempre e comunque. C0me se le religioni fossero solo fantasie assodate per convenzione. Come se ogni rapporto umano, qualunque esso sia non fosse che un preventivo dell'indifferenza e dell'aridità. Il vai e vieni paziente ed eterno del mare, quello che un tempo assomigliava al mio m0vimento vitale insensato ma impostomi dal Kaos, adesso mi era insopportabile, repellente, inutile. La città mi aveva dapprima imbonita, infine incarognita come un lupo ferito a sangue, sul quale veniva sparso del sale per piacere di vedere briuciare la carne vi9va e purulenta. Sapevo che non li avrei mai perdonati. Ci avevo provato, certo. L'odio in fin dei conti non aveva mai abbondato nella mia indole. Il perdono era più congeniale, ma i conati di vomito erano stati troppi. La notte mi svegliavo quasi sonnambula ma mai così viva e smaniosa, di soprassalto, mi alzavo dal letto come se mi avessero piantato un palo nel sedere e urlavo per casa, accasciandomi esausta e spaesata in un angolo con la saliva che mi colava da un angolo della bocca e non davanti gli occhi, ma NEGLI occhi un fotogramma d'orrore. Un fotogramma che si susseguiva silente, illustando le scene insanguinate delle mazzate che mi avevano assassinata dentro, della mia gioventù spesa e svilita per la ricerca di un niente. Non avevo speranza, non avevo perdono né per loro, né soprattutto per me stessa. Perché il male te lo fanno se glielo permetti e io avevo lasciato che tutto scorresse, non mi ero mai tutelata abbastanza. Forse volevo una vita capricciosa e da Dandy alla Dorian Gray, ma forse è altrettanto vero, non avevo letto in tempo il finale di quel libro, abbastanza in tempo per fermarmi qualche centimetro prima del non ritorno. Il prezzo da pagare per la trasgressione è molto più alto di quello che ci si possa immaginare. Termina tutto con un boato sordo che dietro si lascia macerie di carne e pensieri inconcludenti, illogici. Io non perdonavo loro, perché non ero capace di farlo con me stessa. Mi chiamo Asir, e non ho età, ho solo l'illusione di diventare quello che il caso e la gente ha fatto di me, servendosi delle etichette che gli umani chiamano "bene", "male" etc, ma le definizioni di convenzione, i vocali e il fraintendibile delle parole non bastano a descrivere quello che accade nella vita di un essere umano, quello che succede fuori e che dentro scatena eventi ancora pià grandi e contorti. Gli scrittori s'illudono di poter tracciare una mappa, ma non fanno che allontanarsi dal vero. La verià non esiste ed è un bene tanto più prezioso, inossidabile e intoccabile. Mi chiamo Asir e sono una voce narrante come un'altra, non ho scopo alcuno se non quello di fingermi uno specchio per le anime che giocheranno a riflettersi e riconoscersi, almeno un po'. Mi chiamo Asir, ero quella che un tempo amava guardare le stelle, lì in riva al mare, quando la luna non sorgeva e quei puntini si sforzavano da remote distanze di trasmettere il loro calore all'ormai freddezza dei cuori invecchiati. Ero quella che un tempo aveva visto il tramonto morire sanguigno dietro le montagna sbuffanti del sud, quel sud che sembrava poetico nella sua dannazione. Quella terra rossa e avvampata dal sole che con ligue emocolorate rabbrividiva di arsura nella solitudine propria delle cose rare, il privilegio delle anime selvaggie. Una poesia adolescenziale e nostalgica da emigrazione, che poi quando ci torni sembra grigiore. Mi chiamo Asir, e forse non valgo nulla, non servo a niente, porto solo il peso di accorgermi di troppe cose, le introspezioni uccidono la serenità e l'aldifuori di un cristiano, ma ci si accorge quando ormai è troppo tardi. Di me so soltanto, a meno che qualcuno in qualche modo non mi abbia indotta senza che me ne accorgessi, che ho voluto chiamarmi Asir...
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