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- Scritto da Chiara Nirta
- Categoria principale: Rubriche
- Categoria: Stille di cultura
- Pubblicato: 14 Settembre 2014
- Visite: 2253
E’ passato anche Natale. Domani sarà già il primo giorno di gennaio, sono volati in men che non si dica questi cinque mesi di scuola, e dentro questi giorni, quante cose sono mutate senza che me ne accorgessi. E’ notte, e anche le mie notti sono cambiate. Non dormo più, adesso scrivo, col beneplacito consenso delle tenebre, ho scoperto che scrivere per me non è solo un’esigenza, è anche urgenza: di dire, rivoluzionare e trasformare il caos in espressione. E’ l’una e il sonno si abbiglia di voglia e di smania. Prendo la penna, poco importa il colore d’inchiostro che irrora il tubicino, che la mantiene viva, la penna, (perché una penna di vita ne è traboccante). Per cui, sia rosso o nero o indaco non ha importanza, purché scriva: mai avuti pregiudizi, soprattutto nei confronti di chi ha un colore diverso. Intanto m’ invade la mente un aforisma di Svevo: “Fuori dalla penna non c’è salvezza”… riecheggia, l’ultima parola in qualche stanzino polveroso del mio pensiero… ”salvezza, salvezza……ezza….sal…salvezza..a…a..” sì, mi rispondo: lo so. Inizio a scrivere, e la penna è nera, sorrido e proseguo, cosa narro? Narro la paura, narro lo sfinimento di combattere contro una mentalità gretta, contro la bellezza di una Terra che ogni mattina viene soffocata nel buio di una catacomba che la circonda, e di me che mi ostino a voler mantenere un fiammifero acceso anche a costo di bruciarmi le dita. E di quel fiammifero che s’alimenta di combustibili vari: poesia, letture, libri, sogni, sorrisi come antidoto alla cafonaggine. Così scrivo. Scrivo del mio malessere, della mia desolazione, e di una solitudine che scompare quando sono “sul” banco. Narro della mia fatica di socializzare, perché so che non sono una di loro, so che i miei piercing sparsi, i vestiti, le mie risate crasse, i miei discorsi su Pirandello o Gadda, i paradisi compositi che vedo ogni mattina fuori dal pullman lasciati soli a sé stessi, il mare diafiano-paradisiaco con le onde che s’infrangono nella spazzatura, non nelle rocce o contro il bagnasciuga, il mare che è fonte di vita e che privo di depuratori è genesi del contrario, non sarebbero discorsi che con loro potrei condividere. Così socializzo solo a scuola, perché le ragazze lì son diverse, vivono, esistono: lo sento. O con le mie amiche di sempre. Con gli altri non c’è molto da dire, il dialogo non fa nemmeno il minimo sforzo a nascere, e se ci provo m’interrompo dopo poche frasi che ascolto a orecchie sanguinanti: “I masculi sì, i fimmani no.” “ ..no, nto bar? I paisani mi caccinu nominati..” Così narro di questi piccoli disagi che mi opprimono e che hanno segnato le mie insicurezze più aspre. La paura di essere inadatta: Io la diversa, io la pecora nera, io che “nto bar sì, u cafè u vogghiu.” Per fortuna non è tutta così la mia Terra, di poesia ne ha tanta, anche nelle note di quel dialetto così marcato. Solo che da piccola non lo sai, e pensi che il confine del mondo termini dietro quel matrimonio da diciottenne che una becera mentalità inaridita ti propina come “realizzazione”, e che assomiglierebbe a una comunione in realtà, dal momento che i contraenti sono poco più che ragazzini, col senno di poi(lo comprendi); magari quando sei piccola te ne convinci pure, che tutta la tua vita si rannicchi nel palmo della mano di un uomo, che ti concede miracolosamente di sbattere il tappeto fuori da casa: sul balcone, ma magari ti convinci e ti trovi “u zitu”, magari lasci anche la scuola, perché una vocina che non sei tu ti ripete: “A scola? A scola è chista, va lava piatta.” Poi magari ritorni in te, e soffochi la vocina infame (che non sei tu) e dici: “vivi, vivi, vivi, fuggi, fuggi, fuggi”, e correggi la vocina, urlandole: “si dice scuola e non “scola”, ignorante!”, e magari hai la fortuna di avere una Madre, una famiglia diversa, che ti aiuta…”ripeti con me: S C U O L A”, e tu spaesata e felice replichi. Allora ti rendi conto che la mentalità è riuscita a raggirarti, che ti ha imbrogliato, e che la vita non è “chiglia”, bensì quella, anche se in realtà, poi lo hai sempre saputo. Così un bel giorno ti svegli e inizi a rivivere, torni a Scuola, e scopri che hai la passione di scrivere, e potrai allora narrare, narrare anche di come hai cominciato a respirare nuovamente: Chissà che quel bel giorno non sia questa notte. di Chiara Nirta
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